martedì 22 dicembre 2015

CANTO DI NATALE



















Guardo dalla finestra in questa domenica di fine luglio, 
il tempo è finalmente incerto dopo la grande afa e il quartiere è ancora silenzioso. Si sente solo il passaggio di qualche rara auto, mentre i pesanti tendaggi della cucina gonfiano, schiaffeggiando a
tratti disordinatamente, sulle finestre e sul calendario, producendo un rumore secco. Un pensiero fugge e senza peso vola via.
Osservo di nuovo il paesaggio fosco, ma immagino un mondo di colori uniti, eppure distinti, formare un fascio splendente che illumini le coscienze. Immagino giovani menti adulte, aperte a tal punto che non vi siano più steccati a definire i loro giardini, menti che sappiano scegliere cosa ospitare o non ospitare all’interno, perché non ci vuole del coraggio per far questo. E orecchie che possano ascoltare, laddove ascoltare non venga mai più inteso come obbedire. Immagino un mondo dove la verità è ricerca, dove l’espressione di ognuno non cerca l’applauso del mondo e non teme le condanne delle gerarchie. 


E proprio mentre penso questo, allo stato assoggettato che plasma e modella, agli stemmi e bandiere e ideologie che uniscono e dividono, ecco che nell’aria ottusa del mattino due giovani voci gravitanti trapassano festose le fessure delle persiane.
«La mia ragazza mi ha prosciugato!»
«Prosciugato?»
«Si, avevo cinque euro e adesso sono a secco!»

Altri brevi discorsi arrivano smorzati dal rombo di un motore di passaggio, e si concludono con la tipica inflessione locale: «Ih... che mona!» 

Sorrido mentalmente al gergo un po’ spaccone dell’età pensando "sono i figli di Luisa" mentre guardo giù, cercandoli con gli occhi.
Due giovani ragazzi, sorridenti e dinoccolati, procedono speditamente trascinando le bici. Ma non sono i figli di Luisa, perché la pelle di entrambi è molto scura. Uno ha folti capelli crespi, l’altro possiede la chioma liscia e lucida di chi arriva dal medioriente.
Resto immobile, fissa e stupita dall’inganno uditivo: riconosco nella loro estraneità l’accento dialettale della mia infanzia, proprio quello e non un altro. L’istinto cerca veloce qualcosa che mi riporti la certezza appena sfuggita e riaffiora dal nulla un ricordo, profondo, che riconosce lo stesso disorientamento. 


Ho all’incirca dieci anni e dal cortile di casa - il cancello perennemente aperto - compare la figura di un marocchino smunto. Veste una tunica, con pantaloni che un tempo erano bianchi, e affaccia il suo volto segnato sulla porta aperta della cucina. Lo fisso, perché mi colpisce il contrasto tra i capelli quasi bianchi e la pelle nera: era forse la prima volta che vedevo da vicino un nordafricano. Freno l’istinto di ritrarmi o girarmi perché, mi dico, non sono il retaggio di una educazione da uomo nero, si sono ben guardati i miei dal fornirmelo, tuttavia egli rappresenta all’istante il diverso, cerco ma non trovo un comportamento appropriato da tenere. Mi sembra la cosa più sensata quella di chiamare mia mamma, so già che alzerà gli occhi sbuffando tra sé alla vista dell’uomo, con un misto di smarrimento. 
Dirà che non ci sono soldi, e lui insisterà nello sciorinare della merce di scarso valore, pochi fazzoletti, calze, filo di cotone...
E infatti così fa, ma senza dire nulla perché non conosce una parola, limitandosi a muovere le mani e gli occhi, e nel far questo abbassa lentamente la spalla carica di tappeti simil-persiani, lasciandoli scivolare fino a terra, quasi barcollando.
Non lo perdo di vista, notando la prostrazione in quella rispettabile dignità, che anche mamma percepisce. Dalla cucina infatti sfugge un fragrante aroma di pollo arrosto e patate, e questa persona sembra non mangiare da giorni, tuttavia mantiene il suo decoro e continua la dimostrazione, senza insistenza, con uno sguardo limpido.
Capisco che mamma sta pensando la stessa cosa e così azzarda una mossa che papà, trovandoci sole, disapproverebbe in pieno: si fa da parte e con una mano gli indica di entrare a sedere. 


Lui sembra dapprima sorpreso, poi con incertezza si accomoda a occhi bassi, tiene i gomiti elegantemente fuori dal tavolo, dispiega un tovagliolo e lo ripone sulle ginocchia mentre mamma lestamente sostituisce il vino con una bibita. Lui sorride piano congiungendo le mani e abbassando il viso per ringraziamento. Solo allora mamma ci dice gentilmente - ma fermamente - di sedere a tavola, vedendo me e mia sorella un poco perplesse. E infatti, il tarlo genetico del ripudio della diversità ha radici sempre ben salde in ogni essere vivente. Con un misto di senso dell’avventura, senso di compassione e di pericolo insieme, mi appresto al desco, ma l’anziano straniero smentisce ogni losca aspettativa: ha la grazia di un Cristo all’ultima cena.
Consuma e termina il suo pasto senza il minimo rumore sospetto, poi si alza e ricompone la sedia, e quando la mamma si avvicina per chiedergli a gesti se ne gradisce ancora, l’anziano le prende pudicamente le mani, raccogliendole tra le sue e - chinandosi più volte - ne sfiora il dorso solo a distanza con le labbra, prima di raccogliere la sua mercanzia e avviarsi all'esterno senza nulla vendere, con un inaspettato e profondo «Grasie mama, grasie mama.»
Ricordo in quel momento di aver ripassato mentalmente tutte le parabole possibili riguardanti il prossimo tuo come te stesso, e nonostante le profonde lacune in catechesi dovute all’ideologia filo-marxista di mio padre, che pure considerava Cristo nel suo agire il migliore tra gli uomini, mi sono sentita testimone di un Vangelo internazionale, dove gli umani possono scavalcare la paura e diventare creature straordinarie, capaci di comunicare senza parole semplicemente attraverso la più umile materializzazione del bene. 


Davanti alla finestra della mia cucina rievoco quel momento, quando mia madre, con l’essenzialità spartana necessaria al superamento di una sorte spesso per lei avversa, disse pensierosa che sicuramente ora lo avremmo rivisto ogni mese.
Non lo rivedemmo più, invece, né mio padre seppe mai della cosa. Ancora oggi me lo porto addosso, come se io fossi un libro sul quale lo straniero e mia madre avessero tracciato in caratteri arabi ‘fratellanza’, caratteri che benché fragili, benché in un’altra lingua, per un momento sono riuscita a leggere.
Ora che il ricordo ha guadagnato una collocazione e lo sguardo ha seguito i due ragazzi fino in fondo alla strada, ripenso alla storia della mia famiglia e alla mia gente.
Ma quale gente?
I veneti, i carnici o quelli di ceppo francese? E perché non scoprire da che gente veniva quella nonna che non aveva i genitori: dietro a quel nome così apparentemente slavo che le regalarono, chi ci sarà mai stato in realtà? Fossero anche turchi, tanti ne son passati! La querelle sembra infinita, mi siedo e per un istante tutto mi appare semplice. Crediamo che la terra sia nostra. Crediamo che la lingua sia nostra, ma non lo é. 
«Sucabaruca, la caraffa la sbrova! Ciapa, mettela sul balcon». Diceva a volte mia nonna, convinta di parlare il suo dialetto. Ma, inconsapevolmente, con una sola frase si portava in casa parole di ebraico, arabo, franco, celtico e longobardo. Un certo istante si apre illudendomi di accedere alla conoscenza universale, la sensazione è transitoria e in un baleno il cerchio si chiude. Eppure in quella frazione di tempo la visione è matematica.
L’appartenenza è solo un’illusione. Dietro le usanze ognuno mangia e dorme, ama e odia allo stesso modo, nel perpetuo andare e venire, da lontano e da vicino. Un riciclo cosmico alla continua ricerca di qualcosa di migliore, dai monti alle valli, dai deserti alle steppe, malgrado le sofferenze, le tragedie, l’odio e le guerre. Noi tutti, fatti della stessa materia revocabile che ci unisce e non ci distingue, proseguiamo a sancire il nostro spazio privato, tra latitudini e longitudini di questo piccolo mondo, nell’universo imparziale che non ha nord ne’ sud, ne’ est, ne’ ovest.

lunedì 9 novembre 2015

AGNOSTICA STAND BY


























Stavo per inviare un'email a tema religioso al filosofo conduttore di una nota rubrica di rotocalco, quando - nei titoli dell'uscita di oggi - mi scopro già retrocessa al girone degli ignavi nell'inferno Dantesco prima ancora di spedire la lettera. L'articolo in questione classifica gli agnostici come svogliati individui, incapaci di prendere decisioni. Cavoli! Ci rimango malissimo, proprio non immaginavo. Ora mi toccherà riconsiderare daccapo tutta la mia posizione di "agnostica", quindi non prendere coraggiose posizioni ne' impegnarmi in ragionamenti, perché è faticoso. (Non ero proprio allineata alla categoria).

A dire il vero ho amiche affettuose che frequentano Medjugorje
pregando con devozione per tutti, me compresa, con la speranza di illuminarmi. Ci amiamo e rispettiamo moltissimo, dico loro che probabilmente sono più avanti di me, ma di aver pazienza. 

Altre amiche sembrano libere da ogni verità di fede ma sono a loro volta fervide seguaci di altre correnti di pensiero - laiche, ma pur sempre radicali. Si diventa quello che si mangia (dicono) infatti l'educazione che ho ricevuto in famiglia potrebbe essere classificata come l'abiura dei dogmi, in generale. Nel mio astratto ragionare vedo la devozione fare acqua, quando ripone aspettative nella giustizia divina. Si capisce che l'inconoscibile metta spavento ma non mi convincono né superstizioni né esorcismi o santificazioni. 
A quanto sembra l'entropia che ci attraversa non è affatto infallibile, non ottiene risultati a colpo sicuro e meno che mai si preoccupa delle nostre paure, scorre finché trova un equilibrio con gli elementi che ha a disposizione e se fallisce si rigenera sui pezzi di quei fallimenti, alla ricerca del migliore tra i risultati possibili. Naturalmente questa ricerca di equilibrio non ci piace: può sembrare violenta, ingiusta, cattiva e non accettiamo di essere noi lo scarto. Ecco perché le religioni non mi soddisfano: nascono con la necessità di delegare le soluzioni "a qualcuno che non siamo noi", ma restano - purtroppo - umane.
Si capisce che "da quaggiù" la visione sia talmente limitata da far paura e porti a desiderare un aiuto divino, ma - ahimè - non trovo rassicurazioni negli officianti umani che intercedono per noi. Cosa potrebbero fare di più, se non trarre profitto dai timori e dalle incertezze dell'umanità: non siamo tutti materia dello stesso brodo cosmico? 


La natura panteistica mi appartiene di più, le varie specie si impongono tra loro senza alcun giudicante o giudicato. Solo l'essere pensante invoca divinità superiori - ognuna a propria immagine e somiglianza - e rivendica per se' una facoltà di giudizio personalizzata (e anche di perdono, perché libera tutti e allevia le coscienze). In nome di questa licenza si condanna, si conquista, si sottomette, si ammazza, si squarta e si attendono eterne ricompense. 
Leggo continuamente approfondimenti sulle credenze e sulle religioni dei popoli per cercare di avvicinarmi ai sentimenti del mio prossimo e ne ho grandissimo rispetto: sto all'erta come un segugio in attesa di una rivelazione che mi faccia dire "Ecco, avevano ragione loro!" 
Purtroppo, nelle diversità religiose finora considerate, continua a sorprendermi solo la visione così univoca e materiale del genere umano. Comunque attendo sviluppi.

giovedì 10 settembre 2015

LEZIONI DI ETICHETTA




























È bello ricevere lezioni di etichetta a 53 anni.
Mi sono recata all'Ente formativo "X" per recuperare del materiale personale che attendevo da qualche mese e per altre formalità. Gli uffici erano rimasti chiusi per due giorni, e ingenuamente, credendo di trovarli aperti non ho telefonato prima. Invece, perbacco, era in corso una riunione generale e anche gli sportelli erano inattivi.
Essendoci arrivata in bicicletta, dall'altro Comune, forse il mio aspetto non era proprio al top della presenza, magari ero un po' incartata dall'aria e con una capigliatura bidirezionale rispetto il punto di fuga. Forse mi è sfuggita una ruga di disappunto sulla faccia per il fatto di dover tornare. Forse non ho applicato sufficientemente la teoria dei neuroni specchio prima di chiedere a un responsabile incrociato in corridoio se era possibile ottenere il mio materiale senza ritornare di nuovo. Fatto sta che mi sento rispondere: «Provi con la dovuta delicatezza a bussare a quella porta. E magari cerchi di fare un bel sorriso, prima».
Dopo un breve sfasamento di connessioni intercorticali pietrificate ho seguito il consiglio, ma non trovando nessun incaricato all'interno dell'ufficio ho ritenuto opportuno lasciare il campo. Non senza aver ponderato l'urgente necessità di prendere un appuntamento col primo chirurgo estetico per una seduta multipla di botulino che distenda rughe glabellari e rialzi il bordo del vermiglio in un sorriso stile Jocker da sfoderare nelle giornate down, seguita a ruota da un meta-programma di PNL che risvegli in me la tecnica fondamentale del Pacing Rapport. Forse anche qualche aggiornamento in Keep Calm and Bella Raga non mi farebbe male.

Non si finisce mai di imparare.

venerdì 4 settembre 2015

NON C'É NIENTE DA RIDERE



























Preparatevi, sto per fare affermazioni in netta controtendenza.

E' la natura, non l'uomo, a decidere i giochi. Se hai ali forti, volare non ti fa paura.

Siamo catapultati sul pianeta terra non si sa bene perché, e senza un regolare libretto di istruzioni.
In base a dove siamo finiti il nostro futuro si presenterà in bianco/nero o in technicolor. Cosa sia meglio è tutto da stabilire. Fra le due cose la componente "fortuna" giocherà un ruolo importante. Cosa sia questa roba non si sa. In alcune regioni del mondo è considerata "il fato", in altre "la buona sorte", per molti è solo una "illusione per pigri indolenti".

Dopo una quantità d'anni spesa a ragionarci sopra, con letture, dissertazioni e confronti di opinioni, credo che questa incostante e volubile fatina (che definirei stronzetta) esista veramente. Chissà se è un mero prodotto delle sinapsi umane quello in grado di produrre le azioni propositive quanto le irreali allucinazioni... (davvero irreali poi?) oppure se è il frutto di un progetto universale. Averla o non averla è un'incognita - dicasi anche complicazione, intralcio, grana, grattacapo, casino - col quale dobbiamo scontrarci ogni santo giorno e fa la differenza. Ora va di moda pensare che il caso non esiste e la fortuna siamo noi:  siamo in pieno 'Illuminismo 4.0' e chi non si realizza è un inetto o almeno incapace di percepire i segnali quantici dell'universo.
Facciamo un esempio.
Avete presente il mal di schiena? Inizialmente si è portati ad assecondare il dolore prendendo una postura sbagliata, perché magari il fastidio si sente meno. Invece è peggio perché diventa un'abitudine. Giorno dopo giorno i muscoli si inflaccidiscono e tutto il corpo prende una brutta piega. Siamo portati a fare questo perché intervenire sugli elementi di disturbo per correggere il malanno ci costa tempo, lavoro, fatica e anche ulteriore dolore, ma finché non attiveremo questo daffare il problema non si risolverà e non avremo pace.
Tutta qui la formula magica? Magari.
Questo è quello che predica la maggior parte dei guru, santoni & C. Si chiama pensiero positivo, volontà, determinazione, assertività o come volete voi. (Guru, Personal Trainer & Co. sono la manifestazione vivente del successo della terapia, perché sono riusciti ad ottenere profitti personali lavorando molto... sull'induzione alla non-resistenza. La vostra. Nessuno fa niente per niente). Quel che non si dice, che tutti negano ma che ognuno dei comuni mortali sospetta in cuor suo è che una componente fondamentale della riuscita sia determinata dalla fortuna. Dite di no?

Energia.
La fortuna è energia. Il movimento è energia. Il desiderio è energia. La fame è energia. Nessuno di questi fenomeni è determinato dalla volontà.
Tutto il mondo animale e vegetale è fatto di sopraffazione e si mangia l'un l'altro. In alto e in basso della catena alimentare. Predatori e parassiti. Il mondo è un'equazione differenziale, non il dolce stil novo. La fiaba di Disney è un prodotto della mente umana. La Fisica Quantistica no.
La legge dell'attrazione dice che c'è posto per tutti, che i sensi di colpa sono superflui perché non ruberai mai nulla al tuo vicino. Porta un esempio clamoroso, quello della malattia: non potrai far migliorare un ammalato proponendoti di regalargli un po' della tua salute. Ma sta proprio qui la differenza. E così che funziona nei vincenti: non si chiedono se l'azione che stanno per intraprendere sarà un'occasione mancata per chi gli sta accanto. Questo è il paradossale controsenso di quanto affermato sopra.
La legge di natura ha delle regole basate sull'istinto di sopravvivenza che sono giustamente definite "sano egoismo". Il sano egoismo porta il leone a mangiare la preda. O la zanzara a succhiarci il sangue. NON SIAMO tutti uguali. La natura ci offre diversi modi per sopravvivere, ma non le stesse opportunità, perché l'egualitarismo (alla faccia di mio nonno Marxista) porterebbe la fine del nostro mondo, e "qualcosa" ha escluso volutamente questo tipo di programmazione. Nemmeno le cellule del nostro corpo possono diventare altro da ciò per cui sono state programmate, o diverrebbero cellule cancerogene.
Pensavamo bastasse il pensiero positivo? Ahi!

Alcuni dicono che la fortuna e l'amore arrivano quando smetti di inseguirle. Ma potrebbe essere peggio. La signorina Maria sbava da anni dietro al giovanotto Piero che manco la vede. Quando, rassegnata, decide di accettare la corte di Gino e di sposarlo, Piero si accorge finalmente di Maria rompendo i piani anche a Gino. È fortuna? No, è sfiga. C'è un momento, un luogo, un tempo per ogni cosa. Accanirsi perché accada è improduttivo, ma se deve, il momento giusto arriva quando lo puoi apprezzare meglio. Questa è fortuna.

venerdì 14 agosto 2015

L'ORA DI DIO


























Mentre stiamo gustando la nostra pizza al Lido, Giorgio si ferma, alza gli occhi e mi fa: «Ma ti chiedi mai se tutto questo ha un senso?» 
Ha percepito più distintamente il chiacchiericcio intorno a noi, la folla seduta ai tavoli, intenta a discutere di mille argomenti diversi mentre aspetta le pizze sgranocchiando grissini.
«Sì, mi rendo conto di questo, almeno 23 ore su 24».

Ti sei mai alzato nel cuore della notte - gli faccio - prova a svegliarti alle quattro e mezza e spalanca la finestra. Il cielo ha striature cobalto che graffiano il nero, le stelle a quell'ora spiccano come diamanti. Tutto è immerso nel più assoluto silenzio. Io la chiamo "l'ora di Dio". E' l'ora delle domande, e qualche volta anche delle risposte.
Sentirai, un quarto d'ora dopo, gli uccelli cantare chiassosamente, tutti insieme, come se fossero lampadine dell'albero di Natale e qualcuno li avesse accesi, collegandoli alla presa della corrente. 


Ma l'ora di Dio finisce lì, e subito il mondo timbra il cartellino del giorno che viene.

RACCOLTA DIFFERENZIATA


























Ogni tanto mi vengono delle pensate, non so dire se lampanti o stupidissime, comunque mi vengono. 

Stamattina, mentre scendevo le scale ingombra di sacchi di carta, vetro, plastica, lattine mi ripetevo:

Se carta e plastica sono materiali che io pago insieme al prodotto che acquisto (se poi la confezione è in carta goffrata su entrambi i lati, in pura cellulosa ECF, Bianco o Avorio, Vergata, Acquarello, Rustik, Scrapbooking, spessa 300gsm... sono già 20 euro/mq), e una volta scartato il prodotto io uso il mio tempo per separare carta, plastica, metallo e conferire i vari materiali nei luoghi appositi, perché dovrei pagare l'azienda comunale che se li porterà via per rivenderli alle imprese che poi li rimetteranno sul mercato?

Moltiplichiamo il lavoro di separazione dei materiali per cinquantamila cittadini, (anche solo dieci minuti al giorno: provate a suddividere certi eco-imballi a doppio strato dai biscotti o della pasta, a sradicare i tappi di plastica incollati ai tetrapack di succhi, latte, sughi di pomodoro, pressare le bottiglie vuote, appiattire scatole e cartoni, trasferire olii di cottura in altri recipienti e svuotarli nelle campane apposite, togliere finestrelle plasticate dalle buste di carta...) sono 750.000 minuti che fanno 12.500 ore di "lavoro" totali, 5 ore al mese a persona, cioè 60 ore all'anno. Questo tempo quotidiano "risparmiato" dal comune che raccoglie il materiale viene "guadagnato" dallo stesso nella vendita della plastica, carta ecc. 
D'accordo, a causa dei cittadini distratti e poco volenterosi c'è sempre del lavoro supplementare di rifinitura che va a carico del comune, i cittadini virtuosi però si trovano a pagare doppio: in ore proprie impiegate nel conferimento e in tasse di smaltimento e non sono molto soddisfatti. 
Proporrei una soluzione diversa e più motivante. 

Un metodo di raccolta "controllato" per carta, plastica e metalli, dove il cittadino virtuoso possa conferire la propria differenziata già separata alla perfezione. Al cittadino virtuoso andrebbero azzerate le tasse riguardanti i rifiuti solidi industrializzabili, oppure andrebbe gratificato con un compenso per quel materiale riutilizzabile che ha già precedentemente pagato con l'acquisto (e gli appartiene). Come succedeva anni fa, quando l'omino passava col carretto e pagava alle famiglie il ferro e il rame inutilizzato un tanto al chilo


Chissà se questa mia idea è una proposta balzana oppure ha un fondo di serietà?

giovedì 6 agosto 2015

L'ULTIMO NATO

Un Blog, due Blog, tre Blog, quattro, cinque...

Sto trascurando un po' troppo questo mio salotto pubblico, me ne rendo conto. Succede quando si vuole strafare... Ma amo tutti e cinque questi miei "figli" così diversi e non mi sento pronta ad abbandonarne nessuno.

L'ultimo nato è un Wordpress. 
E' nato da un progetto ben più grande e avrebbe dovuto essere un'altra cosa, ma si sa, le cose a volte si trasformano, vanno dove vogliono andare, e noi semplicemente le seguiamo.

Un progetto che nasce è sempre bellissimo, ma non per forza è vincente, spesso è al di sopra delle proprie possibilità. Poi goffamente si modifica, adatta le sue forme slanciate a quella stortura difettata che si pensava fosse un handicap e magari acquista una personalità nuova e interessante.
Il mio ultimo blog è nato proprio dai difetti e dai bastoni che la vita ha messo quotidianamente tra le mie ruote.  
Non posso fare a meno di amarlo, rappresenta il reale, la fatica, il tallone di Achille.

Con nuovi intenti potrebbe dare sorprese inaspettate. E crescere. Dovrò lavorare molto e ancora di più, questo lo so, ma non mi spaventa. 

Eccolo qui: www.cafecoworking.it

LASCIA ANDARE...



























L'ILLUSIONE DEL RECUPERO. 

Questo profondo attaccamento al recupero io non lo comprendo. 
Un abito vecchio che diventa camicia. 
Un telone di plastica che diventa borsa. 
Una bottiglia che diventa paralume. 

Secondo me anche le cose hanno il loro ciclo, come gli esseri viventi. Non è che quando sei vecchio ti ricompongono in un modo diverso e diventi un canguro. 
Muori - semplicemente muori - ti decomponi e ti dissolvi. Dopo centinaia d'anni - forse migliaia - sarai qualcosa d'altro. Una foglia. Un insetto. Un sasso. 
Anche per gli oggetti io la penso così. E' finito il tuo ciclo, ti sono grato di avermi accompagnato fin qui e ora ti lascio andare. Ti dissolverai e tornerai ad essere chimica. Magari dopo una bella raccolta differenziata. 

Le cose nuove profumano e sono gioiose come un neonato in famiglia. Portano sorprese e un lungo cammino da fare insieme. Le cose nuove hanno processi lunghi alle spalle e lavoro per molti. L'universo non rimette più in sesto ciò che è vecchio, non ha sentimenti di pietas. Ogni passaggio regolato dalla Termodinamica corre attraverso una esponenziale entropia per trasformarsi in qualcosa di assolutamente diverso.
Recuperare ciò che ha già avuto la sua storia è solo un lifting mal riuscito. Lasciamo andare... non lo sentite il vento leggero e struggente della partenza verso quello che non si conosce ancora?
Ha il suono soave di un canto. Lasciamolo andare...

martedì 16 giugno 2015

L'HO'OPONOPONO CHE È IN ME



























«Sei stressato per il troppo lavoro? Stai facendo del tuo meglio, ma ti accorgi che successo e gratificazioni sono difficili da ottenere? Non sei consapevole dell'#Ho'oponopono che è in te!»

Non resisto a questo genere di sinossi in quarta di copertina, mi scatta subito un atteggiamento da guerriero di Cartagine della fanteria pesante. Armata di matita comincio una fitta annotazione di punti interrogativi per sabotare tutta la costruzione e reagire, replicare, rimbeccare, obiettare, contraddire, confutare. Talvolta mi trovo d'accordo e lo annoto con un punto esclamativo cerchiato e sottolineato. Se proprio voglio esaltare il trasporto del momento siglo anche un cuore. La lettura procede come una crociata.

Questo genere di scritti possono risultare affascinanti,
ma il più delle volte sono geniali appropriazioni di altre culture. Qualcuno ci annusa l'affare e ci costruisce sopra un impero. Bravi, certo. E non puoi neppure tentare di risvegliare le coscienze, perché su questi temi si gioca il libero arbitrio. Peccato, perché molti schemi sono effettivamente efficaci - vedi la forza del placebo, per esempio - dispiace che poi i metodi originali vengano manipolati, arricchiti, contaminati dal solito fattore denaro.
Per contribuire allegramente al giro economico ho voluto scrivere all'autore e in risposta (come no?) ho ricevuto numerosi sconti per le iscrizioni al prossimo aggiornamento online. Impara l'arte e lasciala andare. E' il marketing gente.


«Caro Joe Vitale,
(il tuo cognome è sicuramente italiano, quindi ti scrivo nella mia lingua).
Tempo fa ho visto il tuo libro in uno scaffale come una provocazione. Ma era scontato del 15% e siccome mi piacciono le sfide mentali l'ho comprato. Avevo già acquistato anche altri libri del genere (molto simili) di Wayne W. Dyer, Ester & Jerry Hicks, Don Miguel Ruiz.

Insomma, ho letto con molta calma ZERO LIMITS, e oggi l'ho finito.
Ti dico alcune impressioni che ho avuto mentre lo leggevo:

1) "
Ho'oponopono" è un suono che ha una pronuncia molto buffa, scusami, ma è difficile pronunciarlo rimanendo concentrati...
2) In questo metodo hawaiano sono descritte cose condivisibili, ma il fatto importante è che "
Ho'oponopono" è frutto di una mente umana. Domani potrei alzarmi e istituire anche io una nuova corrente mentale (siamo tutti particelle divine).
3) "
Pulire, pulire e ripulire dai ricordi: essi bloccano l'energia". Siamo d'accordo Joe, molti ricordi negativi bloccano la vita, ma cos'è la vita senza ricordi? Niente, credo. Senza ricordi non resta traccia di nulla, nemmeno dei tuoi libri.
4) "
Il VUOTO è il fondamento dell'Identità del Sé". Ma se lo scopo della vita è tornare al "vuoto" per accogliere "l'infinito" a cosa servono le esperienze?
5) "
Ognuno ha un ruolo assegnato nell'universo, se la vostra mente lo giudica male andrete in cerca di droghe e dipendenze per nasconderlo. Agite in base al vostro dono: i netturbini e i minatori amano il loro lavoro". (I minatori l'ho aggiunto io). Ma ti chiedo: se ognuno di noi accumula preferenze che sono in contrasto con la volontà divina o cosmica, che scopo hanno i desideri? Non si potevano creare esseri-automi già felici di occupare lo spazio a loro destinato?
6) Sono sicuramente d'accordo sul fatto che non possiamo avere il controllo sulla nostra vita, ma si possa almeno scegliere responsabilmente. Quindi sì, a volte il segreto è arrendersi.
7) "
Fragole e mirtilli, marmellate e gelatine svuotano dai ricordi." Questa cosa è bellissima! Chi te l'ha suggerita: una divinità?
8) Penso che non mi iscriverò ai metodi chiave di guarigione che promuovi alla fine del libro, anche se forse potrei cogliere qualche ispirazione per una nuova attività.  


Bene, ho riempito le pagine del tuo libro di annotazioni a matita. Probabilmente "Ho'oponopono" non ha acquistato un nuovo discepolo, ma ho ritrovato pensieri che si possono condividere, e soprattutto mi hai fatto sorridere (e anche ridere molto) e questo è un bene. 
Joe Vitale, sei sicuramente un grande professionista del marketing e un buon venditore. Ho acquistato il tuo libro consapevole che questa azione avrebbe in piccola parte contribuito al tuo benessere finanziario (fare del bene porta bene...) così come questa mail ti permetterà di ottenere un po' di promozione in più. In cambio ti chiedo un bel rituale di purificazione verso di me: lo so, sono una scettica-agnostica incallita, ma chissà, se le cose dovessero andare improvvisamente bene almeno saprò chi ringraziare.
Anche io ti auguro pace oltre ogni comprensione».
E che questo si compia.

mercoledì 15 aprile 2015

LEI, FACCIA DA VECCHIA


























In risposta a una lettrice che scrive a proposito dello smarrimento dell'ultima generazione, quella costretta ad affrontare l'ingresso alla vecchiaia in una società che celebra il culto della giovinezza, #Umberto Galimberti risponde tra le altre cose citando #Hillman:
"La faccia del vecchio è un bene per il gruppo. E per il bene della società bisognerebbe proibire la chirurgia estetica e considerare il lifting un crimine contro l'umanità".

Mah. Penso io. «Più apatheia per i vecchi?»
In famiglia non ho ricevuto un'educazione tendente al lezioso (ho già detto che a nove anni mi facevano fare riassunti sui testi di Karl Marx...) eppure quando guardavo mia nonna da vicino - una nonna adorata - notavo subito le palpebre cadenti sopra i meravigliosi occhi bigi e mi chiedevo con vera apprensione: «Oddio, non verranno anche a me?»

Penso che l'attrazione per il bello sia connaturata alla nostra specie, un propulsore all'azione vitale. Stacchiamo istintivamente la mela dal ramo, difficilmente raccogliamo quella avvizzita tra l'erba. (Ovviamente nella pura sopravvivenza si raccoglie anche quella).
Di per sé la bellezza esplica la funzione di attivare "desiderio" è quindi necessaria principalmente allo scopo riproduttivo e una volta concluso il processo, bam, se ne va. Però la tensione verso il bello rimane potente, immaginifica, ridondante di sensazioni positive eppure tradita dalla vecchiaia: la gioia è perduta proprio nell'età della sua piena consapevolezza. (Chi non ha esclamato rivedendosi nelle vecchie foto: "Guarda che meraviglia... e credevo di essere brutta!")
Perché la bellezza è puro piacere. Se no, per quale scopo avrebbero inventato il profumo? Non bastava il sapone?

La bellezza è anche in un sorriso. Non si rimprovera una settantenne per essersi rifatta gli incisivi a imitazione di Julia Roberts, ma di aver spianato le rughe sì. Perché? «Perché la masticazione è fondamentale», diranno in molti. Eppure io sono convinta che anche il boom di apparecchi ortodontici c'entri relativamente con la funzionalità, e che la motivazione principale rimanga soprattutto l'obiettivo estetico. Credo che questo desiderio non si debba demonizzare troppo, anche questa è una forma di comunicazione. E' vero che è rassicurante avere in casa la nonna dei biscotti Doria, ma è anche vero che "vedersi bene" facilita le relazioni, la disponibilità verso il prossimo e il coraggio delle azioni. Certi talenti naturali non ne hanno bisogno, (magari risplendono già per intelligenza, bravura o saggezza) ma, diversamente da Hillman c'è il resto del mondo che arranca per andare avanti, gente comune cui basta "vedersi bene" per dare un senso al giorno che verrà.
La nonnina dei biscotti Doria questo problema estetico probabilmente non se lo poneva proprio: nel secolo scorso era già un traguardo oltrepassare i settanta. Ma era forse meglio?

IO CREDEVO, IO PENSAVO.

C'è un fattore comune che mi infastidisce un sacco, e ribadisco mi infastidisce un sacco. 
Quello delle scelte fatte così. 

"Ma dai, ci pensiamo dopo". 
"Vedrai che poi cambierà". 
"Intanto cominciamo e poi si vedrà". 

Decisioni più che legittime - intendiamoci - a patto che non si concludano con l'inevitabile  «Ah, ma io credevo... io pensavo». 
Odio a morte questa frase. E' la giustificazione dei profittatori. Quelli che non si curano delle conseguenze e se possibile le scaricano sul primo che passa. Categoria di voltagabbana e portaguai. 


"Ma dai, ci pensiamo dopo" comporta il fatto che, se va male, te la metti in saccoccia e tiri dritto dicendo: «Ok, avrei dovuto pensarci prima, è solo colpa mia». Non cadi dal pero con lo sguardo smarrito in cerca di qualcuno che ti risolva il problema. 

C'è un bivio ad ogni passo nella vita e la scelta è tua. Prenditi la responsabilità delle tue azioni: sulle tue scelte non puoi più recriminare.

domenica 1 febbraio 2015

IL SESTO SENSO





























 Francia, un bel po' di anni fa. 
Zona sud-orientale del dipartimento del Var, per l'esattezza Roquebrune-sur-Argens. 
Con mio marito e mio figlio stiamo esplorando un'area abbastanza selvaggia, a nord della cittadina (un borgo medievale dominato da una roccia maestosa che dicono ricordi il profilo di una donna addormentata). 

 Lasciato alle spalle il villaggio e i vari "chemin des..."  ci inoltriamo per una campagna piuttosto selvatica, fatta di piste sterrate, ponticelli, cespugli e colline montagnose. Affascinante e antica.
Dopo una certa percorrenza ci fermiamo per ammirare meglio il grande massiccio a forma di donna. Mi fa pensare a Paul Cézanne, "La Montagne Sainte-Victoire au grand pin". 
Scendiamo tutti dall'auto che abbiamo parcheggiato leggermente in pendenza, proprio all'imbocco di un lunghissimo ponte, mio marito estrae la storica Reflex e si immerge nel suo hobby dedicandosi alla migliore inquadratura della montagna. Siamo a pochi chilometri dalla cittadina ma non c'è alcuna casa intorno. 
Prendo per mano mio figlio e mi avvio a percorrere il lungo ponte a piedi: sono una camminatrice appassionata e gioiosa.  
«Ti aspettiamo di là... » dico a mio marito che neanche mi sente, preso com'è dal reportage e aggiungo: «Vieni a prenderci con la macchina, quando hai finito». 
La brezza è quella leggera di settembre, gli spazi aperti hanno il profumo magico dei luoghi ancora incontaminati e il cielo è brillante. C'è un meraviglioso silenzio. Neppure un uccellino che cinguetta o che vola. 

Quando siamo quasi a metà del percorso rallento involontariamente, sento il petto stringersi senza motivo e, allarmata, guardo mio figlio di quattro anni che trotterella accanto a me. Mi volto indietro ma mio marito non si vede più, nascosto dal declivio e dal muretto del ponte. Starà cercando la migliore inquadratura. 
Osservo il limite opposto che dobbiamo ancora raggiungere, è molto lontano e non c'è nessuno laggiù, né un veicolo né un ciclista di passaggio. È totalmente deserto. 
Scuoto la testa: le mie solite preoccupazioni..

Riprendo a camminare e a parlare con il mio figlioletto eppure, dopo una decina di passi, ecco di nuovo quell'affannosa chiusura e una specie di peso sotto ai piedi, una forza potente che mi ferma esattamente lì. Mi impedisce di proseguire.
«Fèrmati... » dico a mio figlio e accampo una scusa: «è troppo lungo questo ponte, torniamo indietro». Con la spensieratezza dei bambini lui fa dietrofront incamminandosi contento in direzione dell'auto: il fiume in secca che c'è sotto di noi non ha grandi attrattive per lui.

Nel vedermi arrivare mio marito si stupisce: «Perché hai già mollato?» 
Gli rispondo vagamente: «Così... » senza dire altro.
Si attarda con le ultime inquadrature, ci fa notare alcuni particolari, ammiriamo i colori, i profumi, il silenzio. Poi decidiamo di risalire in auto e proseguire un po' alla cieca oltre il fiume in secca, per scoprire dove porterà questa strada, cosa ci sarà oltre quella macchia di cespugli o quello spuntone di roccia. 

L'auto impiega il tempo necessario a superare il ponte sopra l'alveo di sassi, poi notiamo la strada incurvarsi a gomito proprio verso l'uscita. Preparandoci alla curva rallentiamo l'andatura, quando improvvisamente qualcosa di indefinito ci salta addosso schiantandosi violentemente sul cofano, sopra il tetto dell'auto e cozzando pesantemente anche sul portellone dietro. La visuale si oscura in tutte le direzioni disorientandoci. 

L'auto sbanda e rallenta, solo allora riusciamo finalmente a capire: siamo accerchiati da un branco di animali di grossa taglia, molossi inselvatichiti e cani randagi alla deriva, non riusciamo neppure a percepire con esattezza quanti, perché piombano uno sull'altro da ogni lato, ma sono tanti, e altri ne arrivano ringhiando da ogni direzione lanciandosi sulle portiere, sul cofano e sul tetto della nostra auto in pochi secondi.
Io scatto protendendomi all'indietro verso mio figlio e lo vedo aggrappato al centro del sedile, con i finestrini miracolosamente chiusi. Mio marito pesta istintivamente sull'acceleratore facendo schizzare le bestie ai lati, ma loro proseguono ferocemente l'inseguimento ancora per due o trecento metri finché il maschio alpha arresta la sua corsa, cristallizzando immediatamente l'azione di tutto il branco. Dissolvendosi in un baleno, spariscono nel nulla come sono apparsi

Mi sento le gambe molli, porto le mani alla testa: «Come stai?» chiedo a mio figlio, cercando subito qualche battuta per sdrammatizzare. Le considerazioni ci escono libere: «Ma da dove saranno venuti? E se fosse passato un ciclista?»
Nessuno accenna al fatto che dovevamo esserci noi. Che mio marito non sarebbe riuscito ad arrivare in tempo. Che anche fosse stato vicino a noi non sarebbe riuscito a fermarli tutti. 
Un senso di terribile stupefatta incredulità ci prende.

Perché mi sono fermata? Mi chiedo. 
Perché non ho proseguito fino alla fine del ponte: chi mi ha impedito di farlo? 

C'è un tipo di intuizione che sfocia dal profondo e non possiamo definire, ma solo riconoscere. Ci fa agire controcorrente: non sappiamo perché, ma sentiamo di doverla assecondare. 
A volte ci sentiamo degli sciocchi a farlo - è superstizione - pensiamo, eppure stiamo interpretando dei segnali precisi, in quel momento il nostro "cervello antico" riesce a processare velocemente tutti i dati che i sensi ci stanno inviando. C'è un'istintivo e atavico segnale di allarme per il pericolo. È probabilmente inscritto come una tacca tra le informazioni genetiche nel nostro DNA. Oltrepassa il razionale.  
E a volte, se sappiamo ascoltare, ci salva.

domenica 25 gennaio 2015

NO LAVORO MI...


























No lavoro mi! Go tropo de fàr... 
Questo aveva detto un simpatico signore con ascendenza austroungarica ma naturalizzato triestino che ho conosciuto un anno fa, in occasione di un concorso letterario (che peraltro aveva vinto). Go tropo de fàr: mi era piaciuta tantissimo l'espressione territoriale. Infatti la concezione del fare è soggettiva. Vi capita mai di trovare qualcuno che vi saluta così: "Dove te ne vai a zonzo, a far niente?"
E tu in quello stesso momento hai la testa intasata di informazioni: una nuova trama per l'ultimo racconto, ritrovare dei contatti preziosi segnati chissà dove, pianificare un business-plan che faccia lavorare almeno quattro persone, compresa me.
Non è mica una cosa da niente la progettazione. Si possono fare delle attività manuali mentre si pianifica, ma non molte, la mente dev'essere sgombra, qui il multitasking c'entra come i cavoli.
Non puoi tagliare un tessuto prezioso, montare un armadio o aggiustare un motore rotto progettando contemporaneamente una startup, però puoi fare una doccia, lavare la macchina, camminare o aspirare il tappeto.

IL PENSIERO E' ENERGIA. 
LE AZIONI DISPERDONO ENERGIA. 
Questo mi è venuto in mente leggendo un articolo sull'energia delle stringhe cosmiche e le opinioni contrastanti di due fisici che dibattevano sulla possibilità o meno di viaggiare nel tempo.
Pensare, addentrarsi nell'immaginario è una attività meravigliosa che richiede comunque concentrazione e assenza di peso razionale (almeno all'inizio). All'opposto, le azioni del quotidiano sono continuamente sollecitate verso il basso, verso la sussistenza, il confronto, la competizione. Questo toglie moltissima energia al pensiero libero che, se ruba spazio all'azione, viene percepito come perdita di tempo e il soggetto stesso è definito svagato e dispersivo.
Eppure, il progredire della società si è manifestato attraverso questa forma di temporaneo estraniamento dalla realtà. Non c'è una sola conquista scientifica che non sia stata preceduta da una specie di contemplazione del mondo.
Nulla si è compiuto restando all'interno dei confini e delle regole.