giovedì 27 marzo 2014

CHI HA PAURA DEL COMUNISMO?



























Posso rassicurare tutti.
I comunisti non hanno mai mangiato i bambini. Né i loro né quelli degli altri. (Veramente non mi hanno mai neppure assaggiato, ho ancora tutte le cose al loro posto, non mi manca nulla).

In un covo di comunisti ci sono nata, per questo non li temo: una certa dose di autolesionismo incorporato li rende innocui.  

Associo la falce e martello alla faccia di mio padre, una faccia dai lineamenti perfetti posata come una ciliegina sul fisico da attore, prestante, slanciato e con il portamento di un Kennedy. 

Eppure era comunista. 

Da quegli occhi acquamarina traspariva voglia di conoscere, di onestà, giustizia e moralità, ma anche l'entusiasmo dei bambini. Era intelligente, coraggioso, caparbio, abilissimo in ogni campo, sia nel lavoro che nello sport. Non avrebbe recato danno volontariamente a nessuno, salvo a se stesso, e così è stato.
Nella sua vita da operaio-sindacalista-artigiano-piccolo imprenditore una personalità fondata nell'assoluta rettitudine morale lo ha condotto verso un integralismo ideologico che faceva a pugni con la società reale. Negoziare significa massimizzare il proprio beneficio per raggiungere un accordo. Lui sapeva che ce l'avrebbe fatta in ogni caso. Ma tutti gli altri? Gli ultimi?
Con questo conflitto frustrante si è auto-eliminato dal mondo, portandosi via tutti i suoi talenti.

Meritocrazia e/o Competizione?
Sorrido amorevolmente quando qualcuna delle mie amiche con visione tendenzialmente "di destra" cambia espressione al solo nominare la parola comunismo. La loro percezione vigilante è stata indotta fin da piccine, e le comprendo.
Così come faccio fatica a cambiare il concetto meritocratico nella testa di alcune amiche della sinistra radicale. Queste ultime leggono nella parola meritocrazia una radice del termine "competitività" e ci aggiungono "concorrenza sleale". Sono convinte che applicare la meritocrazia porterebbe danno alle categorie deboli, perché i più dotati e talentuosi si troverebbero, secondo loro, sempre in pole position. Non è così.

Confondono il "merito" con il "riconoscimento sociale" delle categorie deboli, nel quale io credo fermamente. Qui non c'entra la gerarchia del "più sveglio", anzi. É vero, ci sono dirigenti truffaldini, commercianti ladri e medici incapaci. Ma anche bidelli lavativi, operatori furbi, insegnanti assenteisti, panettieri disonesti e ognuno di questi crea un danno alla società intera, anche se con un Q.I. alto.
La meritocrazia invece significa competenza e responsabilità nel fare le cose, a qualsiasi categoria siano riferite, ed è il contrario di "nepotismo", "clientelismo", "casta", "elite" le quali vivono proprio su questa assenza.
Una società basata sulla meritocrazia non sceglierebbe un politico affidandosi solo al carisma, alle strategie competitive, alla furbizia e all'arroganza, ma su progetti dinamici e sulla competenza.

Mio padre comunista mi ha insegnato a spostare il focus e vedere oltre la facciata degli individui. Forse è riuscito a trasmettermi quello che non è stato in grado di compiere per sé. La volontà di tenere insieme le qualità di chi si incontra nella vita, e la parte migliore di ogni ideologia. Di questo veramente lo ringrazio.

mercoledì 26 marzo 2014

LA SCELTA DEL BENE (O DEL MALE)


























Mi sento vicina a quel tipo di religiosità cosmica di tipo spinoziano, se così si può definire il panteismo, ma Papa Francesco mi piace comunque molto. Uno puro e semplice come non se ne vedevano da tempo. 

"Convertitevi o per voi sarà l'inferno" è stata la sua espressione diretta agli uomini della mafia. Un anatema esplicito e chiaro, per un uomo di chiesa. Ma per un uomo della malavita?

Perché un uomo abbraccia il male?
Per paura o per bramosia di potere, ma in entrambi i casi l'inferno cattolico non è contemplato.
Per chi soggiace alla paura il vero inferno è mettersi contro un "padrino", per chi ha sete di potere l'inferno è un'arma che si può scatenare a piacimento per ottenere ciò che si vuole.
Toccheranno le corde dell'anima le parole del pontefice?
Non lo so, le parole di Papa Francesco sono piene di speranza, com'è giusto che sia, ma si fondano su un linguaggio incomprensibile ai violenti. Forse tali animi percepiscono solo la forza dell'azione, quell'intensa manifestazione che li incanala nelle loro recrudescenze, alle quali solo una azione omeopatica contrapposta (simile/sofferenza) potrebbe agire da folgorazione sulla via di Damasco.

Per i cattolici solo un messaggero dell'onnipotente potrebbe tanto.
Ma anche per gli agnostici la forza del pensiero non si discosta molto dal concetto di grandezza, considerando l'universo e la vita come scambio e rivelazione di fenomeni.

Chissà, forse inconsapevolmente, parliamo tutti lo stesso linguaggio.
Perciò buona fortuna, caro Francesco, se la tua parola potrà diventare esperanto di comprensione sarà una fortuna per tutti.

mercoledì 19 marzo 2014

L'AMICA SINCERA


























Esiste al mondo l'amicizia sincera?
 

Pensateci donne.
Vi è mai capitato di incontrare qualcuno che scambia la malizia per sincerità?
Basta guardarsi attorno.

«Sai che non ti direi mai una bugia, sono sempre sincera con te: ho appena visto tuo marito a braccetto con una bella bionda.» 


Oppure: «Ti vedo sciupata oggi: stai male?»

È questa la sincerità? Per me è solo cinismo.
 

Potrei certo dire a un'amica: 
«Oh, guarda che hai messo il maglione al contrario!» perché so che sarebbe un tipo di sincerità "produttiva" infatti basta toglierlo, rivoltarlo e il problema si risolve.
Ma non le direi mai, neanche sotto tortura: 

«Hai un herpes sul labbro stamattina!», e nemmeno «Sei un po' ingrassata, o mi sbaglio?» perché sicuramente lei lo avrà notato prima di me e dicendolo non le risolverei un bel niente, oppure fino a quel momento non le interessava più di tanto e la farei solo intristire.

Ci sono piccole omissioni e delicatezze che rendono grandi le amicizie, sono proprio queste il mare immenso che le tiene separate dalle semplici conoscenze. ♥

martedì 18 marzo 2014

Bye Bye... FB!



























Zac: un taglio netto.

Sono entrata in Facebook cinque anni fa, a ripescare gli amici seminati per le strade del mondo: "Ciao come va? Cosa fai, dove sei finito/a?"
Era molto divertente, pensavo avrebbe accorciato lo spazio tra me e le persone che mi interessavano.
Il tempo di inserire due preferenze ed ecco la piovra con i suoi tentacoli: hai cliccato mi piace sulla foto al mare postata dalla zia Brambilla? 

Beccati una sfilza di soggiorni low-cost sulla Costa del Sol.
Perdi subito un po' di tempo a disabilitare tutti i cookie allegati.

Mano a mano che i contatti crescono, la Home si riempie
di scorie, un rumore di fondo, un brusio costante finto, inutile e vuoto che non smette mai. Sono qui, sono là, sto andando. 

Foto di cani e di gatti, di bagna cauda alle otto di mattina, micro-citazioni di Einstein (per carità nessun commento tecnico, facebook non è mica La corazzata Potëmkin!) catene di immagini pittoriche, impressionisti, dadaisti, clicca mi piace Pellizza da Volpedo! (Puntinismo? Boh, sarà scarlattina...)

Tonnellate di post insignificanti, sguaiate definizioni su tutto, decine, centinaia, migliaia di minuti presenti trasformati in un passato e futuro fatto di nulla. 

Perché mai questo dovrebbe sembrare così interessante?
Per cadere a mia volta nella tentazione di convincere, educare, spiegare? Per alcuni basta anche solo sbirciare i fatti degli altri.

Sembrava di perdere chissà che. 

Alla fine si è risolto tutto in un divorzio breve e senza traumi. L'autentico piacere di vedere un amico/a mantiene intatte le sue antiche strade, il resto è soltanto noia. Dov'è l'uscita?
Bye bye Facebook.

sabato 15 marzo 2014

SNOB!



























Non si direbbe che esco fuori da una famiglia di marxisti atipici, per certe cose sono bon tòn come una liceale borghese.
Dev'essere quell'ottavo di sangue blu che mi scorre dentro, anche se decaduto dal 1885.
Fatto sta che ho un trasporto inspiegabile per certe stranezze tipicamente noblesse d'épée, come il tè nero caldo e senza zucchero, le posaterie argento-alpacca, le biblioteche private (meglio se così immense da non poterci uscire), le maisons de campagne con cappella privata tipo quella del mio bisnonno defenestrato dalla famille, il fastidio per le voci squillanti e i rumori, la passione per le altezze più alte possibili (non soffro di vertigini), e per l'allure innato.
Quello stile personale che non c'entra nulla con l'eleganza, gli abiti firmati, i gioielli o la bellezza. Intendo quella caratteristica seduttiva che riesce a farti girare la testa per la strada, anche se la persona appena incrociata è anziana o demodè. L'allure ha molte declinazioni.

Trovo affascinanti:
♦ la polvere sui mobili e sulle scarpe
♦ libri, matite, penne e blocchi-appunti sparsi come se piovesse
♦ frutteti di mele selvatiche
 
vecchi maglioni molto amati, ristretti o coi buchi  
foglie secche a mucchi 
grandissimi disordinati bouquets multicolori  
una sola pietanza al giorno, piccola ma favolosa

Trovo deprimenti:
♣ l'umido in tutte le declinazioni (devo essere stata un gatto) 
♣ cantine, sottoscala e sale termiche
♣ il letto sfatto e ammassato (lo spiano come un tavolo da biliardo)
♣ i calzini coi buchi (li butto appena c'è un velo di trasparenza)
♣ i rammendi! (sono orribili, i buchi hanno più dignità, calzini esclusi)
♣ collezionare bomboniere
♣ il 3x2 e le dispense piene di tutto (#consumare meno#spendere meno#mangiare meno!)
♣ quelli che pagano dietologi e massaggi dimagranti (vale l'# sopra, meglio devolvere la cifra alla mensa della Caritas!)
♣ gli orari fissi per pranzo e cena
♣ le crostate di marmellata
♣ le impostazioni vocali parvenue (preferisco un sano e ruspante accento territoriale) 
♣ oltre 2 vasi di piante in casa
♣ la colf (se proprio è necessario, fissare almeno un giorno per pulire insieme e invitarla a cena ogni tanto).
 

Ho passato i primi dieci anni della mia vita indossando costosi abiti da boutique, eppure dormendo in una cameretta angusta e senza sbocchi diretti all'esterno, infatti la mia finestra dava su un laboratorio buio e polveroso, pieno di attrezzi da artigianato. Stranezze! Le torte di compleanno me le compravano in pasticceria, mia mamma non si è mai cimentata nell'impresa. Natale non si festeggiava proprio: c'era solo un piccolo abete pagano a celebrare la giornata della famiglia, mai visto un presepe. Il regalo arrivava per "Santa Lucia", preannunciato dalla comunicazione ufficiale che tanto Santa Lucia non esiste e chiusa lì la faccenda. Niente fiabe, please, siamo outsider. Nel '61 eravamo l'unica famiglia del rione ad avere telefono, tv, frigo, lavatrice, lavastoviglie, fisarmonica, chitarra, mandolino e mangiadischi (mangiavamo anche molte bistecche a pranzo e cena: i vegani non li avevano ancora disegnati), per casa nostra passavano indistintamente sindacalisti, professori, dirigenti scolastici, operai metalmeccanici e consiglieri comunali, (si accettavano anche preti, purché lasciassero fuori dalla porta ogni tentativo di conversione) per accalorate discussioni politico-culturali che si protraevano fino alle prime ore del mattino. Di questa vita a dir poco pittoresca (ma è solo una parte minima, ce ne sarebbe da dire!) mantengo un dualismo contrapposto. Per esempio una inspiegabile tendenza alla parsimonia, leggi tirchieria, riguardo le spese in genere. Caso singolo della famiglia, non so proprio da chi l'ho ereditata. Come una perfetta regina Elisabetta prendo poco e riciclo tutto, anche le cose smesse delle amiche (che amo particolarmente proprio perché appartenevano a loro), ma con stile. Ci vuole, è vero, un minimo talento cromatico per gli abbinamenti, ma anche quello è un dono di famiglia, per fortuna. 

L'uomo della mia vita dice che sono snob.
Sì, è vero.
Sono terribilmente, intensamente, orrendamente snob. E' innato. Mi piace. Mi fa stare bene.
Quindi, come disse quel gran pezzo di gnocco di Clark Gable a Scarlett O'Hara: Frankly, my dear, I don't give a damn.
Francamente, me ne infischio.

martedì 11 marzo 2014

TORNO SUBITO...



























SUCCEDE.
Un disguido tecnico, cambi due parametri e puf, sparisci.
Per un giorno "StateComodi" se l'è presa comoda e da Blog aperto al mondo è diventato burbero e chiuso a tutti. Qualche lettore affezionato, non trovandomi più da nessuna parte, ha pensato bene fossi caduta anch'io nel buco nero... «Evvai, ce ne siamo liberati finalmente!»
Falso allarme.
Grazie soprattutto a Mauro e Letizia, amici di questo sgangherato Blog, che mi hanno avvisato subito.

mercoledì 5 marzo 2014

LA GRANDE BELLEZZA



























Tempo fa ho preso a noleggio "La Grande Bellezza": avevo notato il trailer al cinema e deciso che avrebbe meritato la visione. Non soltanto per la probabile candidatura all'Oscar, ma soprattutto per quella provocatoria "armonia del contrasto" che avevo vagamente intuito. 

Una parte sostanziale dell'umano agire che mi è totalmente estranea è quella della trasgressione. Non l'andare oltre in sé (che sperimentato in vera libertà sarebbe esaltante), quanto la supposta "indipendenza morale" che una parte di umanità si convince a esercitare con soddisfazione. La piccola "furbata", ecco. Oppure l'eccesso. La violazione sottobanco. La perversione. La lussuria. La dissolutezza viziosa del potere.
Non considerando che tutto è meccanico, stabilito a priori da qualche forza primaria, ordinario, quindi non soddisfacente.  


La vera trasgressione è annusare l'esca e scansarla.
Farsi di canne e strafogarsi di alcol, sbattersi nelle orge, stordirsi di decibel o rimbambirsi di fondamentalismi - etici o religiosi che siano - equivale a incanalarsi nella strada edulcorata e già predisposta dal sistema di gratificazione cerebrale: quel meccanismo strategico di sopravvivenza fatto di spinte compulsive basilari. (Sa odore di fregatura grandissima). 

Il senso de "La Grande Bellezza", se si riesce a vedere, è questo. La consapevolezza del bluff che si cela nell'atto stesso dell'infrangere. Interpretazione che ho trovato magnifica, quasi nichilistica. Lo stacco abissale fra le dimensioni è vibrante.

Se invece l'unica cosa che salta agli occhi in tutte le riprese è la bagarre di colori e di suoni, allora non si è ancora entrati nella dimensione più corretta, la razionalità qui non aiuta, sarebbe come chiedere alla retina di percepire l'infrarosso, bisogna spostarsi su diverse lunghezze d'onda. 


Non sono molto sicura che l'attribuzione dell'Oscar sia frutto di analisi interpretative. Temo che gli americani abbiano individuato l'unico aspetto che riescono percepire dell'Italia: quello
stereotipato della genialità e dell'eccesso. Però è solo una sfaccettatura. 
Neanche in Italia, comunque, è stato apprezzato da tutti, anzi sono fioccate le critiche sui social network. Al di là che il regista non sia quel gran campione di simpatia, qualcuno ha definito il suo film un mattone e si è addormentato in poltrona.
Peccato.
La purezza sonora di Vladimir Martynov levita sulle magnifiche inquadrature, scorrendo
minimalista e cristallina, in soave opposizione alla nobile decadenza.  
Che dire? Viva l'Italia, l'unica nazione capace di criticare se stessa anche quando vince un Oscar.