domenica 1 febbraio 2015

IL SESTO SENSO





























 Francia, un bel po' di anni fa. 
Zona sud-orientale del dipartimento del Var, per l'esattezza Roquebrune-sur-Argens. 
Con mio marito e mio figlio stiamo esplorando un'area abbastanza selvaggia, a nord della cittadina (un borgo medievale dominato da una roccia maestosa che dicono ricordi il profilo di una donna addormentata). 

 Lasciato alle spalle il villaggio e i vari "chemin des..."  ci inoltriamo per una campagna piuttosto selvatica, fatta di piste sterrate, ponticelli, cespugli e colline montagnose. Affascinante e antica.
Dopo una certa percorrenza ci fermiamo per ammirare meglio il grande massiccio a forma di donna. Mi fa pensare a Paul Cézanne, "La Montagne Sainte-Victoire au grand pin". 
Scendiamo tutti dall'auto che abbiamo parcheggiato leggermente in pendenza, proprio all'imbocco di un lunghissimo ponte, mio marito estrae la storica Reflex e si immerge nel suo hobby dedicandosi alla migliore inquadratura della montagna. Siamo a pochi chilometri dalla cittadina ma non c'è alcuna casa intorno. 
Prendo per mano mio figlio e mi avvio a percorrere il lungo ponte a piedi: sono una camminatrice appassionata e gioiosa.  
«Ti aspettiamo di là... » dico a mio marito che neanche mi sente, preso com'è dal reportage e aggiungo: «Vieni a prenderci con la macchina, quando hai finito». 
La brezza è quella leggera di settembre, gli spazi aperti hanno il profumo magico dei luoghi ancora incontaminati e il cielo è brillante. C'è un meraviglioso silenzio. Neppure un uccellino che cinguetta o che vola. 

Quando siamo quasi a metà del percorso rallento involontariamente, sento il petto stringersi senza motivo e, allarmata, guardo mio figlio di quattro anni che trotterella accanto a me. Mi volto indietro ma mio marito non si vede più, nascosto dal declivio e dal muretto del ponte. Starà cercando la migliore inquadratura. 
Osservo il limite opposto che dobbiamo ancora raggiungere, è molto lontano e non c'è nessuno laggiù, né un veicolo né un ciclista di passaggio. È totalmente deserto. 
Scuoto la testa: le mie solite preoccupazioni..

Riprendo a camminare e a parlare con il mio figlioletto eppure, dopo una decina di passi, ecco di nuovo quell'affannosa chiusura e una specie di peso sotto ai piedi, una forza potente che mi ferma esattamente lì. Mi impedisce di proseguire.
«Fèrmati... » dico a mio figlio e accampo una scusa: «è troppo lungo questo ponte, torniamo indietro». Con la spensieratezza dei bambini lui fa dietrofront incamminandosi contento in direzione dell'auto: il fiume in secca che c'è sotto di noi non ha grandi attrattive per lui.

Nel vedermi arrivare mio marito si stupisce: «Perché hai già mollato?» 
Gli rispondo vagamente: «Così... » senza dire altro.
Si attarda con le ultime inquadrature, ci fa notare alcuni particolari, ammiriamo i colori, i profumi, il silenzio. Poi decidiamo di risalire in auto e proseguire un po' alla cieca oltre il fiume in secca, per scoprire dove porterà questa strada, cosa ci sarà oltre quella macchia di cespugli o quello spuntone di roccia. 

L'auto impiega il tempo necessario a superare il ponte sopra l'alveo di sassi, poi notiamo la strada incurvarsi a gomito proprio verso l'uscita. Preparandoci alla curva rallentiamo l'andatura, quando improvvisamente qualcosa di indefinito ci salta addosso schiantandosi violentemente sul cofano, sopra il tetto dell'auto e cozzando pesantemente anche sul portellone dietro. La visuale si oscura in tutte le direzioni disorientandoci. 

L'auto sbanda e rallenta, solo allora riusciamo finalmente a capire: siamo accerchiati da un branco di animali di grossa taglia, molossi inselvatichiti e cani randagi alla deriva, non riusciamo neppure a percepire con esattezza quanti, perché piombano uno sull'altro da ogni lato, ma sono tanti, e altri ne arrivano ringhiando da ogni direzione lanciandosi sulle portiere, sul cofano e sul tetto della nostra auto in pochi secondi.
Io scatto protendendomi all'indietro verso mio figlio e lo vedo aggrappato al centro del sedile, con i finestrini miracolosamente chiusi. Mio marito pesta istintivamente sull'acceleratore facendo schizzare le bestie ai lati, ma loro proseguono ferocemente l'inseguimento ancora per due o trecento metri finché il maschio alpha arresta la sua corsa, cristallizzando immediatamente l'azione di tutto il branco. Dissolvendosi in un baleno, spariscono nel nulla come sono apparsi

Mi sento le gambe molli, porto le mani alla testa: «Come stai?» chiedo a mio figlio, cercando subito qualche battuta per sdrammatizzare. Le considerazioni ci escono libere: «Ma da dove saranno venuti? E se fosse passato un ciclista?»
Nessuno accenna al fatto che dovevamo esserci noi. Che mio marito non sarebbe riuscito ad arrivare in tempo. Che anche fosse stato vicino a noi non sarebbe riuscito a fermarli tutti. 
Un senso di terribile stupefatta incredulità ci prende.

Perché mi sono fermata? Mi chiedo. 
Perché non ho proseguito fino alla fine del ponte: chi mi ha impedito di farlo? 

C'è un tipo di intuizione che sfocia dal profondo e non possiamo definire, ma solo riconoscere. Ci fa agire controcorrente: non sappiamo perché, ma sentiamo di doverla assecondare. 
A volte ci sentiamo degli sciocchi a farlo - è superstizione - pensiamo, eppure stiamo interpretando dei segnali precisi, in quel momento il nostro "cervello antico" riesce a processare velocemente tutti i dati che i sensi ci stanno inviando. C'è un'istintivo e atavico segnale di allarme per il pericolo. È probabilmente inscritto come una tacca tra le informazioni genetiche nel nostro DNA. Oltrepassa il razionale.  
E a volte, se sappiamo ascoltare, ci salva.