martedì 22 dicembre 2015

CANTO DI NATALE



















Guardo dalla finestra in questa domenica di fine luglio, 
il tempo è finalmente incerto dopo la grande afa e il quartiere è ancora silenzioso. Si sente solo il passaggio di qualche rara auto, mentre i pesanti tendaggi della cucina gonfiano, schiaffeggiando a
tratti disordinatamente, sulle finestre e sul calendario, producendo un rumore secco. Un pensiero fugge e senza peso vola via.
Osservo di nuovo il paesaggio fosco, ma immagino un mondo di colori uniti, eppure distinti, formare un fascio splendente che illumini le coscienze. Immagino giovani menti adulte, aperte a tal punto che non vi siano più steccati a definire i loro giardini, menti che sappiano scegliere cosa ospitare o non ospitare all’interno, perché non ci vuole del coraggio per far questo. E orecchie che possano ascoltare, laddove ascoltare non venga mai più inteso come obbedire. Immagino un mondo dove la verità è ricerca, dove l’espressione di ognuno non cerca l’applauso del mondo e non teme le condanne delle gerarchie. 


E proprio mentre penso questo, allo stato assoggettato che plasma e modella, agli stemmi e bandiere e ideologie che uniscono e dividono, ecco che nell’aria ottusa del mattino due giovani voci gravitanti trapassano festose le fessure delle persiane.
«La mia ragazza mi ha prosciugato!»
«Prosciugato?»
«Si, avevo cinque euro e adesso sono a secco!»

Altri brevi discorsi arrivano smorzati dal rombo di un motore di passaggio, e si concludono con la tipica inflessione locale: «Ih... che mona!» 

Sorrido mentalmente al gergo un po’ spaccone dell’età pensando "sono i figli di Luisa" mentre guardo giù, cercandoli con gli occhi.
Due giovani ragazzi, sorridenti e dinoccolati, procedono speditamente trascinando le bici. Ma non sono i figli di Luisa, perché la pelle di entrambi è molto scura. Uno ha folti capelli crespi, l’altro possiede la chioma liscia e lucida di chi arriva dal medioriente.
Resto immobile, fissa e stupita dall’inganno uditivo: riconosco nella loro estraneità l’accento dialettale della mia infanzia, proprio quello e non un altro. L’istinto cerca veloce qualcosa che mi riporti la certezza appena sfuggita e riaffiora dal nulla un ricordo, profondo, che riconosce lo stesso disorientamento. 


Ho all’incirca dieci anni e dal cortile di casa - il cancello perennemente aperto - compare la figura di un marocchino smunto. Veste una tunica, con pantaloni che un tempo erano bianchi, e affaccia il suo volto segnato sulla porta aperta della cucina. Lo fisso, perché mi colpisce il contrasto tra i capelli quasi bianchi e la pelle nera: era forse la prima volta che vedevo da vicino un nordafricano. Freno l’istinto di ritrarmi o girarmi perché, mi dico, non sono il retaggio di una educazione da uomo nero, si sono ben guardati i miei dal fornirmelo, tuttavia egli rappresenta all’istante il diverso, cerco ma non trovo un comportamento appropriato da tenere. Mi sembra la cosa più sensata quella di chiamare mia mamma, so già che alzerà gli occhi sbuffando tra sé alla vista dell’uomo, con un misto di smarrimento. 
Dirà che non ci sono soldi, e lui insisterà nello sciorinare della merce di scarso valore, pochi fazzoletti, calze, filo di cotone...
E infatti così fa, ma senza dire nulla perché non conosce una parola, limitandosi a muovere le mani e gli occhi, e nel far questo abbassa lentamente la spalla carica di tappeti simil-persiani, lasciandoli scivolare fino a terra, quasi barcollando.
Non lo perdo di vista, notando la prostrazione in quella rispettabile dignità, che anche mamma percepisce. Dalla cucina infatti sfugge un fragrante aroma di pollo arrosto e patate, e questa persona sembra non mangiare da giorni, tuttavia mantiene il suo decoro e continua la dimostrazione, senza insistenza, con uno sguardo limpido.
Capisco che mamma sta pensando la stessa cosa e così azzarda una mossa che papà, trovandoci sole, disapproverebbe in pieno: si fa da parte e con una mano gli indica di entrare a sedere. 


Lui sembra dapprima sorpreso, poi con incertezza si accomoda a occhi bassi, tiene i gomiti elegantemente fuori dal tavolo, dispiega un tovagliolo e lo ripone sulle ginocchia mentre mamma lestamente sostituisce il vino con una bibita. Lui sorride piano congiungendo le mani e abbassando il viso per ringraziamento. Solo allora mamma ci dice gentilmente - ma fermamente - di sedere a tavola, vedendo me e mia sorella un poco perplesse. E infatti, il tarlo genetico del ripudio della diversità ha radici sempre ben salde in ogni essere vivente. Con un misto di senso dell’avventura, senso di compassione e di pericolo insieme, mi appresto al desco, ma l’anziano straniero smentisce ogni losca aspettativa: ha la grazia di un Cristo all’ultima cena.
Consuma e termina il suo pasto senza il minimo rumore sospetto, poi si alza e ricompone la sedia, e quando la mamma si avvicina per chiedergli a gesti se ne gradisce ancora, l’anziano le prende pudicamente le mani, raccogliendole tra le sue e - chinandosi più volte - ne sfiora il dorso solo a distanza con le labbra, prima di raccogliere la sua mercanzia e avviarsi all'esterno senza nulla vendere, con un inaspettato e profondo «Grasie mama, grasie mama.»
Ricordo in quel momento di aver ripassato mentalmente tutte le parabole possibili riguardanti il prossimo tuo come te stesso, e nonostante le profonde lacune in catechesi dovute all’ideologia filo-marxista di mio padre, che pure considerava Cristo nel suo agire il migliore tra gli uomini, mi sono sentita testimone di un Vangelo internazionale, dove gli umani possono scavalcare la paura e diventare creature straordinarie, capaci di comunicare senza parole semplicemente attraverso la più umile materializzazione del bene. 


Davanti alla finestra della mia cucina rievoco quel momento, quando mia madre, con l’essenzialità spartana necessaria al superamento di una sorte spesso per lei avversa, disse pensierosa che sicuramente ora lo avremmo rivisto ogni mese.
Non lo rivedemmo più, invece, né mio padre seppe mai della cosa. Ancora oggi me lo porto addosso, come se io fossi un libro sul quale lo straniero e mia madre avessero tracciato in caratteri arabi ‘fratellanza’, caratteri che benché fragili, benché in un’altra lingua, per un momento sono riuscita a leggere.
Ora che il ricordo ha guadagnato una collocazione e lo sguardo ha seguito i due ragazzi fino in fondo alla strada, ripenso alla storia della mia famiglia e alla mia gente.
Ma quale gente?
I veneti, i carnici o quelli di ceppo francese? E perché non scoprire da che gente veniva quella nonna che non aveva i genitori: dietro a quel nome così apparentemente slavo che le regalarono, chi ci sarà mai stato in realtà? Fossero anche turchi, tanti ne son passati! La querelle sembra infinita, mi siedo e per un istante tutto mi appare semplice. Crediamo che la terra sia nostra. Crediamo che la lingua sia nostra, ma non lo é. 
«Sucabaruca, la caraffa la sbrova! Ciapa, mettela sul balcon». Diceva a volte mia nonna, convinta di parlare il suo dialetto. Ma, inconsapevolmente, con una sola frase si portava in casa parole di ebraico, arabo, franco, celtico e longobardo. Un certo istante si apre illudendomi di accedere alla conoscenza universale, la sensazione è transitoria e in un baleno il cerchio si chiude. Eppure in quella frazione di tempo la visione è matematica.
L’appartenenza è solo un’illusione. Dietro le usanze ognuno mangia e dorme, ama e odia allo stesso modo, nel perpetuo andare e venire, da lontano e da vicino. Un riciclo cosmico alla continua ricerca di qualcosa di migliore, dai monti alle valli, dai deserti alle steppe, malgrado le sofferenze, le tragedie, l’odio e le guerre. Noi tutti, fatti della stessa materia revocabile che ci unisce e non ci distingue, proseguiamo a sancire il nostro spazio privato, tra latitudini e longitudini di questo piccolo mondo, nell’universo imparziale che non ha nord ne’ sud, ne’ est, ne’ ovest.