giovedì 4 dicembre 2014

STICAZZI SPECIAL PRIZE



























Una collega mi posta il link di un contest: 
«Dai un'occhiata, se ti va».
Sono mille anni che non partecipo ai concorsi di grafica, però decido lo stesso di andare a vedere... non si sa mai. L'intestazione dice: "Iscrizione al Premio La Balordera - Crea l'Etichetta"
 
Primo dubbio: dal titolo non sembrerebbe un concorso promosso da una organizzazione no-profit, ma continuo a leggere sotto:
«Concorso per la realizzazione di un'etichetta per una linea di vino blablabla, ispirata al tema blablabla, che sarà presentata in occasione di Vinitaly blablabla, per Nutrire il Pianeta blablabla, e promossa in eventi esclusivi Expo 2015».
Ah, ecco, è una azienda che i profitti li fa.  
«Dettagli del premio». Bravi, entriamo nel dettaglio.
«All'artista vincitore verrà assegnato un premio in denaro di 5.000 euro» (beh, quasi un anno di stipendio ad date), «con il quale l'azienda La Balordera acquisisce la proprietà dell'opera e ogni diritto ad essa connesso di proprietà industriale, intellettuale, sfruttamento dell'immagine e blablabla»
 Continuo sotto.
«Allegare il materiale dopo l'avvenuta iscrizione». D'accordo.
«Form da compilare entro e non oltre il 4 dicembre 2014 previo pagamento della quota di iscrizione di € 50».
Rileggo, ma è scritto in rosso e in grassetto, non mi è sfuggito nulla. C'è proprio scritto 50. Cerco da qualche parte se la tassa di iscrizione abbia un senso, che so: "gestione dei file, stampa e montaggio su supporto rigido per esposizione" oppure "allestimento di esposizione collettiva degli elaborati", niente. Mi viene un dubbio. Sono ferma alle tasse di iscrizione di 10 euro o giù di lì, quando ancora i concorsi erano banditi dagli Enti pubblici con finalità socialmente rilevanti e si partecipava solo per fare curriculum. «Ma servono a coprire le spese della giuria» mi spiega la mia collega: «sono abbastanza dignitosi, in genere la partecipazione a questi eventi parte da 200/300 euro».  
Non riesco a trattenermi, comincio a ridere di gusto.

Nuntio vobis gaudium magnum!
Ecco il nuovo che avanza: il Contest del grafico kamikaze. 
Il committente studia un semplice sistema per fare promozione e farti lavorare gratis. Crea un evento, affianca il brand aziendale all'egida di un noto concorso d'arte che raccoglie in media ottomila partecipanti, stabilisce una tassa di iscrizione per coprire le spese di organizzazione offrendo un premio economico al vincitore e promettendogli visibilità all'Expo 2015.   
Esilarante, trattenetemi sto per sentirmi male. 

Ma da quando una azienda privata bandisce un concorso per farsi l'etichetta di vini? Non hanno trovato abbastanza Agenzie di comunicazione pronte ad occuparsi del loro stilismo aziendale? Forse desiderano ottenere il massimo della professionalità al minimo sindacale? O magari si tratta di eludere il vecchio e scomodo "compenso" dovuto al lavoro creativo?  

Facciamo due conti sugli effettivi vantaggi:

- Con  i primi 100 partecipanti l'azienda mandante recupera gli importi versati con la causale "spese organizzative" avendo così già pronta la quota del premio, insieme a cento progetti esecutivi gratuiti, senza scucire un centesimo. Il resto è grasso che cola.
- Ben che vada, si riserverà i criteri di scelta proclamando un vincitore. Pensiero standard degli esclusi di turno: «Amen, mi sono esercitato», «Era già tutto previsto», «Che ciofeca, mio nonno faceva meglio». 

- Mal che vada, uscirà un comunicato stampa col quale si avvisa che nessuna delle opere in gara è stata ritenuta valida ai fini del concorso, i lavori più interessanti finiranno in copia sulla scrivania del tipografo di fiducia come materiale di ispirazione per le etichette dei prossimi cinque anni.  
Sembra tutto regolare e infatti lo è, la presa per i fondelli è legalizzata.  

Ricevo varie proposte di incarico no-budget da parte di persone che mi credono talmente innamorata del mio lavoro da desiderare farlo gratis. Vista la comune tendenza di far passare lo sfruttamento dei talenti altrui come opportunità, riporto qui sotto due linee di condotta, specificando che alla parola "gratis" scatta in automatico il metodo sticazzi.

Risultato di una prestazione gratuita nella versione 

GRAFICO KAMIKAZE:
Fegato ingrossato, aumento della bile e dei consumi del toner (per le prove di stampa), pranzo e cena a base di crackers da mangiare davanti al monitor per rispettare i tempi di consegna "per ieri". 
Costo/ore lavorative, bonifico e spedizioni: a partire da 200 euro + spese di farmacia per Maalox.
Conto in banca: Rosso.

Risultato delle stesse ore impiegate nella versione 
GRAFICO STICAZZI:
Un'ora di passeggiata al parco, lettura della sezione Cultura davanti a un cappuccino e un croissant appena sfornato, corso gratuito di aggiornamento grafica 3D erogato dall'ente formativo cittadino, passaggio in biblioteca per recuperare "Hinagata-japaneseart", tappa dalla zia novantenne per saluto e commissioni, due ore di consulenza graphic/design a giovane studente (barattate con sostituzione dei tergicristalli), scrittura del racconto "Vinci il tuo stipendio" da pubblicare eBook per Kindle, e per chiudere preparazione di crema di zucca e bruschetta verace (con l'ultimo pomodoro raccolto nell'orto della zia).
Costo/ore lavorative: 0 euro + Incarnato alla Heidi dei boschi. 
Conto in banca: sempre Rosso, magenta 70% e yellow 30% 
C'è bisogno di gratuità?
...Carpe diem, quam minimum credula postero.

lunedì 17 novembre 2014

LA FAVOLA CATTIVA.


























«La parola entra in contatto con le persone e assume aspetti diversi. Ognuno riconosce qualcosa di sé, ognuno capisce quel che può o vuole capire». 

Mi piace scrivere, a volte partecipo a qualche premio letterario, piazzandomi tra i finalisti. Questa volta sono arrivata terza, è una bella soddisfazione. Si ricevono complimenti, un premio e un attestato che fanno molto piacere, ma naturalmente non mancano i commenti dall'esterno o le critiche degli esclusi. Qualcuno ha interpretato il mio racconto (questo) come un atto d'accusa nei confronti dell'imprenditoria selvaggia e alcuni ne hanno anche tratto uno spaccato sul futuro dei lavoratori "post articolo 18". Qualcun altro ha travisato il sarcasmo espressivo, scambiandolo per un uso improprio di termini tecnici dovuto - mi hanno spiegato - a sudditanza esterofila.
Né l'una né l'altra ipotesi corrisponde alla mia visione.


Piuttosto il racconto descrive un cambiamento dei costumi, dei metodi e dei rapporti tra il mondo di oggi e quello di trent'anni fa. Non è mia abitudine ancorarmi alle tradizioni, nemmeno quando queste potrebbero garantirmi qualche forma di sicurezza. Sicurezza non ne ho mai avuta nella vita, non ho avuto il privilegio di un lavoro subordinato né di una garanzia allo studio, ma non mi lamento. Non c'è nulla di certo - eccetto la morte - e anche questo fenomeno non conosciamo bene cosa sia, salvo intravedere la rappresentazione della continua trasformazione che ha la vita, il dare/avere che ci chiede continuamente lo stare al mondo. Quindi?


Non c'è alcun conflitto tra quello che dico e il racconto che ho scritto.
Non credo che l'imprenditoria sia la portatrice sana della crisi attuale. Come non credo giusto che un lavoratore subordinato possa godere di maggiori tutele rispetto le altre categorie. Come non credo che la decrescita felice porti un miglioramento nella condizione umana globale, chi lo afferma non ha mai fatto il contadino di mestiere, però può permettersi di acquistare "biologico".
Fino a quando una fiumana non ci sommerge, o un terremoto devasta la città, nessuno si pone il problema di fare una ricerca prima di comprare una casa sul letto di un fiume, o di approvare un appalto al ribasso (verificando almeno in corso d'opera se il cemento è depotenziato). 

Dopo, invece, è molto facile lanciare accuse di raggiro e incompetenza.
Per questo il mio racconto non è un atto di accusa verso questa o quella corporazione, questa o quella area politica, (sarebbe troppo facile). E' invece la presa d'atto di un cambiamento molto più grande, e difficile da accettare. 

Mi piace la libera espressione, non il fanatismo. 
Mi piacciono le regole, ma non l'integralismo ideologico. 
Mi piace l'uguaglianza, ma non l'egalitarismo. 
Infine, come tutti gli esseri viventi, mi piace la stabilità ma questo non difende dai cambiamenti e non garantisce diritti "in aeternum" ad alcuno.  
Per sempre è una definizione scorretta.

domenica 26 ottobre 2014

PAURE, FOBIE & AFFINI



























Con l'intento di partecipare alla presentazione di un libro mi prefiguro il tragitto ottimale per arrivare alla biblioteca che ospita l'evento. Tempo di percorrenza: 35 minuti: la presentazione si tiene nella cittadina dei coltelli, in località sottomonte. Nella mia immaginazione è un luogo potenzialmente misterioso; la città dei coltelli da bambina mi scatenava inquietanti associazioni con la famiglia Addams. La presenza oscura di un monte, non solenne ma sovrastante, ammonisce il visitatore spensierato. La struttura urbanistica è serrata, a rete stretta, l'esposizione solare ridotta, la luce permane meno a lungo tra le case rispetto ai paesi più a valle e sembra ci entri anche di sbieco, riflettendosi velocemente altrove come sugli specchi.
Quando si apre la grande piazza centrale è quasi un colpo, non te l'aspettavi tutto quel decoro di bifore, e quello spazio improvviso ti sconcerta. La cittadina ospita anche un quartiere luogo di memoria e di oscuri presagi. Insomma, nonostante la presentazione del libro tratti un argomento bellissimo - la felicità - e l'autore sia la persona più accogliente e positiva possibile, la scenografia mi sembra un po' scoraggiante, (ma è solo la fantasiosa percezione del mio iceberg sommerso, lo so). 

Ci vado da sola, alcune amiche avevano altri impegni, forse qualcun'altra la troverò già là.
E' alle 20.30 di un fine ottobre, e l'idea mi predispone a un atteggiamento sovraccarico di blindature ridicole: "Meglio dotarsi di abbigliamento caldo, perché è sempre freddo" / "La zona pullula di torrenti dormienti, che si risvegliano quando meno te l'aspetti: è opportuno che mi studi un percorso facilitato" / "Devo attivare dei numeri telefonici in caso di bisogno" / "Ci vorrebbe un mezzo di trasporto adeguato". E qui casca il palco.
La mia auto l'ho portata proprio oggi in revisione dal meccanico e ho a disposizione la vettura modello Paperopoli-111 della mia genitrice. E in ogni caso il mio mezzo ideale non corrisponde ad alcun modello attualmente in commercio.
Il mio mezzo ideale infatti è un'auto maneggevole, corazzata come un Panzer-Division e in grado di risultare impenetrabile, atta a garantire la sopravvivenza in caso di bisogno (assalto baionetta, assetto stradale franoso, fiumana, terremoto, crollo e caduta massi, ubriaco al volante nella corsia opposta).
Certo la mia visione del mondo non è celestiale, si capisce, eppure vado a cercare le cose che mi indispongono. (Ma perché?) 

Attivo sempre dei piani di fuga. A teatro, al cinema, all'ingresso di un ristorante affollato, camminando per la strada. Vedo il mondo insomma come un luogo violento.
Lo so, tutto questo gran movimento di imprevisti è una forma necessaria al processo evolutivo, fa parte della legge universale e si chiama entropia, comunque preferirei non trovarmici in mezzo ma osservare da un punto esterno, o quanto meno essere organizzata. Non mi trovo a mio agio nelle battaglie, non perché non sia in grado di affrontare le situazioni avverse, quanto perché mi infastidisce la loro ciclicità.
La questione è puramente estetica: battagliando non si guadagna alcun punto fermo ma si viene semplicemente proiettati al prossimo bivio. Insomma c'è sempre una svolta che ti aspetta più avanti. Meraviglioso in un certo senso, sfiancante nell'altro. 

E pensare che c'è gente sempre in cerca situazioni estreme per mancanza di adrenalina propria.
Beh, se potessi vendergli la mia a un euro al chilo, a quest'ora sarei una Rockefeller...

venerdì 12 settembre 2014

UN'ESTATE CON GLI STIVALI

























Quando il cielo è ostinatamente color acciaio anche a Settembre, in questa estate niente affatto riconoscibile come "Estate Italiana", quando sei ancora in attesa che accada qualcosa di sorprendente e ti incaponisci a indossare T-shirt bianche e sandali infradito anche se la pelle si increspa dai brividi, a un certo punto ti assale inevitabilmente un certo che di frustrazione. Ti senti in credito dei tre-quattro mesi di luce che servono da cuscinetto per affrontare quello che verrà. La vitamina D non si forma, nonostante i polpettoni di ottimismo che ci vengono somministrati a oltranza dai guru della felicità. E anche se fosse possibile attivarla per mezzo di un pensiero autoimposto resterebbe un misero succedaneo, come la solita pillola di integratori. Allora metterei il famoso guru davanti a un piatto di spaghetti allo scoglio e nell'altro piatto gli indicherei una bella pilloletta rossa, dicendogli: "Scegli. Il risultato è lo stesso. Fai emergere la felicità dalle tue papille gustative col pensiero".

Luce, vento caldo dell'estate, si diceva.
A questo punto, arresa e incrudolita, indosso la felpa.
E cosa resta da fare se non ripescare dai ricordi quei cinque-sei giorni di sole rubati alle nubi?
Perciò mi lascio trasportare dalla sinestesia di un odore, quel sentore forte che impregna ogni vico di Genova parallelo al porto, per esempio. Budelli di pietra dai nomi evocativi e nostalgici, Via del Campo, Vico di Untoria, strettoie dove il sole non riesce a penetrare neanche al rintocco del mezzogiorno, ma la vita penetra eccome.
Il lungomare del porto vecchio, dove fermarsi ospiti di un oste un poco ruvido per un galvanizzante piatto di trenette al pesto, proprio come le faceva la zia Adua a Bocca di Magra, con la patata lessa e i fagiolini nell'acqua di cottura, e per secondo la cima alla genovese, lenta, laboriosa, antica.

E che dire della salita degli artisti, che si inerpica in alto a Santa Margherita.
Trovi sempre una signora elegante in abito bianco e doppio filo di perle che si ferma a chiacchierare col suo cane: "Pensa come un cristiano, gli manca solo la parola".

E poi oltre, ancora più a ovest, direttamente in braccio al blu del cielo e del mare aperti alle calanques: bienvenue à bord! 
Ora posso anche percepire sotto i piedi le alghe nere seccate tra le distese di sassi sberluccicanti, il benessere del salso sulla pelle, l'intensità della resina che apre il respiro, il fragore secco dei ciottoli che si staccano dalle pareti di roccia e rotolano giù. 

Adesso sto quasi meglio.

Perfino un pavido raggio sembra farsi largo tra la massa dei nembocumuli, supera come una freccia i vetri costellati di gocce e si ferma sulla mia scrivania. Luccica solitario e irridescente che a vederlo quasi mi commuove. 
(Giorni liguri - Foto)  (Giorni  sur la côte d'azur - Foto)

domenica 10 agosto 2014

Face à la plage...




























Ritorno sempre volentieri in Francia.
La profondità del blu che si staglia sulle candide Calanques procura sensazioni indescrivibili. 

Il cielo è veramente Ciano 100%. I sassi contengono percentuali metalliche che risplendono come glitter. Ma basta spostarsi di qualche chilometro e le rocce diventano rosso mattone. Ovunque si è immersi nel verde: pini marittimi che hanno visto passare carrozze trainate da cavalli ombreggiano l'intera carreggiata. Querceti. Vigne basse. Intenso aroma di erba riarsa, di resina, di salso e iodio. Brezza asciutta e fresca, azzurra, zero percentuale di umidità. Fiori e fiori, soprattutto nel verde pubblico. Colori uniformi e armoniosi sulle facciate delle case, sobrie anche quando sono lussuose, deliziose quando sono umili. Niente ostentazione. Nessun elemento stridente. Un buon lavoro di amministrazione pubblica. 

Le spiagge sono libere, ci si va con una stuoia e quando occorre un ombrellino. Nessuno si appropria di grandi spazi da difendere digrignando i denti: qui la gente va e viene, si ferma un paio d'ore o anche meno, poi se ne va. Il turnover è costante. 
Nessuno osserva i vicini con sguardo critico, se si pensa qualcosa la si tiene per sè. La ragazza oversize con il fidanzato stecchino, la bella giovane dell'est con il marito anziano, le coppie miste franco-asiatiche o franco-magrebine con splendidi bambini bi-etnici, nulla di questo fa notizia, non genera bisbigli o risatine sommesse: l'integrazione è più avanti. 

Le vetrine dei negozi sono quasi sempre dipinte nella tonalità antracite chiaro, o tortora-bianco, le insegne ton-sur-ton, le porte piacevolmente incorniciate. Le persone parlano molto ma non strillano, sorridono e ridono allegramente (chi ha detto che i francesi sono burberi? Non è vero affatto). 
Le donne di sera escono senza borsetta: dove metteranno le chiavi, il portafoglio, il rossetto? Dettaglio curioso.

All'ombra di un pino o di uno spuntone roccioso non si soffre il caldo-umido della pianura padana. Potrei restare qui con lo sguardo fisso sulla linea d'orizzonte, anche per sempre. 
(Foto)

martedì 1 luglio 2014

IL LINGUAGGIO NON VERBALE


























Spesso mi diverto a osservare i modi che le persone usano per muoversi nello spazio. 

Da come camminano si capisce molto di più che esaminando semplicemente i loro abiti.
L'abito fa il monaco, può trarre in inganno e deviare uno sguardo distratto. L'incedere e la direzione sono invece più attendibili; osservandoli attentamente si possono interpretare la personalità, il temperamento, il genere di cultura, la professione e perfino la nazionalità. 
A questo punto uno potrebbe chiedersi: ma i tratti somatici definiscono anche quelli caratteriali?
No, questo io non lo credo proprio. Anche se la sociologia e l'antropologia criminale nella visione di Lombroso tendevano a legare i caratteri degenerativi alla struttura fisica e ai tratti somatici, non credo a questa cosa, perché sarebbe veramente discriminante. Fa paura solo a pensarla.

Ho notato invece che la falcata di un avvocato è molto diversa da quella di un ristoratore,  che a sua volta si contraddistingue nel modo di muoversi da un carrozziere o di un metalmeccanico; come per esempio l'andatura di una commessa è diversa da quella di una cameriera. In genere, anche fuori dal loro ambiente lavorativo, queste ultime tendono a camminare velocemente a piccoli passi, con guizzanti spostamenti laterali del capo e il busto proiettato in avanti (forse è l'abitudine a controllare i tavoli), mentre la commessa posa intorno a se' uno sguardo felpato, si muove più cautamente ma parla più velocemente.
Probabilmente l'ambiente sociale nel quale si è vissuti fa la sua parte, e non di rado questo determina anche la scelta del lavoro che si andrà a scegliere.
L'ambiente fisico ne traccia le caratteristiche somatiche - è ovvio - però se è abbastanza facile affermare che una persona proviene dall'Africa o dall'Asia è relativamente più difficile capire se arriva dalla Mongolia o dal Kazakistan, e sembrerebbe ancora più complicato distinguere un olandese da un francese, un inglese da un  tedesco, o un ceceno da un serbo.
 Invece direi di no. 
Se si studiano attentamente le proporzioni del viso e del corpo, i lineamenti, le tonalità dei capelli, il colore degli occhi, la forma dei denti, delle sopraciglia e delle labbra, la gestualità naturale, l'atteggiamento di approccio con le persone, con un po' di allenamento si riescono a distinguere le varie etnie senza l'ausilio della lingua parlata.
E' un divertimento questo che esercito durante i viaggi, ma anche nel territorio dove vivo, ormai il mondo è una miscellanea.
Spero comunque che da queste molteplici caratteristiche la globalizzazione non ci riduca un giorno a un soggetto unico, sarebbe un peccato perdere tanta variegata bellezza. 
Mi ricordo una certa frase di Morgan Freeman (che cognome magnifico!) quando recitando nella parte del moro Azim (credo fosse nel filmetto Robin Hood principe dei ladri) disse così: 

«Dio ci ha donato infinite tonalità meravigliose».

Quanto è vero, ho pensato.

venerdì 6 giugno 2014

ECCO QUA N'ANTRO ESEMPIO DE STATUA ROMANA




























Che spasso leggere notizie di questo genere. 

Qualche giorno fa, in uno dei suoi articoli il giornalista Marco Filoni osservava divertito che la notte dei musei aperti aveva riscosso un notevole successo anche tra i visitatori che non ci si aspetterebbe mai di incontrare.
Infatti, intervistato dal TG1, uno dei suddetti visitatori appena uscito dalle sale confermava:
«Bello 'sto museo. Mejo che annà a ballà!»

Poi c'è chi prende la cosa ancor più seriamente e crea un Blog dedicato all'arte, ma spiegato con un linguaggio talmente truzzo che non si può resistere. 

Qui un'anteprima

«Ecco qua n’antro esempio de statua romana copiata da na statua greca, che ai romani ‘a scurtura greca je piaceva na cifra e pe fortuna se sò fatti ‘e copie, che poi l’originali se sò persi quasi tutti e invece quarche copia è rimasta. » 

Inoltre, per i più coatti e refrattari alla lettura c'è addirittura la possibilità di godersi la lezione a video. 
Nun ce credi? Sta un po' a vedè: 
http://lartespiegataaitruzzi.tumblr.com/

Voglio esprimere grandiosi complimenti all'autrice del Blog, che normalmente fa la guida turistica in lingua inglese, francese, spagnolo e giapponese...

In romanesco però... è n'antra robba.

venerdì 9 maggio 2014

C'E' CHI INGRASSA CON L'ARIA...



























A maggio escono dalle tane, guardinghi e incazzati.
Imprecano astiosi verso la società patinata delle riviste glamour e ripetono la loro litania come un mantra. 


E' il Popolo Che Ingrassa Con l'Aria.
Una buona percentuale appartiene all'universo femminile, ma non mancano i rappresentanti di quello maschile, belli sani e rubicondi. Più gioviali gli uomini, invelenite le donne, entrambi i generi se la prendono contro i "magri congeniti" e vanno ripetendo con convinzione di sentirsi figli di un dio minore che li ha condannati a ingrassare mangiando... aria!
Farli ragionare sul fatto che la magrezza costituzionale è quasi una leggenda metropolitana e che solo una percentuale molto bassa dell'umanità soffre di questa disfunzione metabolica è una battaglia persa. Certo se parliamo di pura costituzione non si potrà mai trasformare un cavallo da tiro pesante in uno da corsa, la natura stabilisce che si nasca biondi o bruni, alti o bassi, energici o tranquilli. Ti risponderanno che loro ingrassano veramente con l'aria e anche rispetto a te, che hai il privilegio di soffrire settemila intolleranze alimentari che ti salvano dalle tentazioni, sono più sfortunati, perché avendo sempre molto appetito sono perennemente a dieta e quindi sottoposti a rinunce costanti: li hanno progettati alla nascita per ingrassare guardando il cibo.

Con una piccola indagine scopri che l'aria che li fa ingrassare è composta di carboidrati complessi (la dieta mediterranea fa bene), che associano il pane alla pasta (ai cinque cereali però!) che riescono a fagocitare il primo piatto alla velocità della luce mentre tu stai ancora sollevando la forchetta. 

Ti guardano con commiserazione se prendi una pallina di gelato alla menta perché il codice PIN/PUC di accesso al paradiso è tris-di-gianduia-nutella-bacio-alla nocciola di Piemonte su cialda artigianale arrotolata extra/size.
Di correre, camminare o muoversi in bici neanche a parlarne. Quelli sono benefit per chi ha tempo da perdere, chi lavora veramente si sposta solo in auto.
Gli chiedi: non è che vuoi la botte piena e la moglie ubriaca?
Ti risponderanno che al mondo c'è ingiustizia perché le modelle e i ballerini sono magri congeniti. 

Devo ancora conoscere una mannequin o una etoile della danza che introduca più di settanta grammi di pasta scondita al giorno. Certo c'è sempre quella che ama farsi idealizzare e ti racconta che mangia sei portate a pasto senza guadagnare un etto. Ma sono balle. Un individuo che consuma senza muoversi più calorie di quante ne introduca è malato, non possiede certo un organismo sano.  

In vista della prova costume, come soluzione last minute, suggerisco di iscriversi al partito radicale e sostituire Pannella per due settimane. I risultati sono garantiti: forse non sarete in prima linea alle prossime Europee, però sarete comunque in linea.  

In seconda battuta propongo di indossare un sorriso allegro e abiti gioiosamente scollati, che mettano in risalto la grazia delle forme tondeggianti e la felicità del bel vivere... La coerenza è sempre meravigliosa, chi ama mangiare che lo faccia pure, ma senza sensi di colpa estivi. Non c'è niente di più bello di una persona che sa godersi la vita fino in fondo. 
Viva la ciccia!

giovedì 1 maggio 2014

BONJOUR TRISTESSE


























«Sono Luca, del gestore telefonico Pinco Pallino, stiamo facendo dei lavori nella vostra via e volevamo proporle...»
«Mi spiace, mi spiace, ho qui delle persone...» Click. 

 
Oddio poteva essere mio figlio, sensi di colpa a mille, ma no dai, è già la quinta telefonata commerciale e non posso farmi carico del mondo
ne ho già tante di rogne, sì però, povero ragazzo ci sarà rimasto male, vabbè, tanto mi avrà sicuramente già mandato a quel paese, il training formativo glielo fanno per qualcosa, e poi, se volesse trovare un lavoro più stabile perché non fare il calzolaio?

Sì, il calzolaio.
L'altro ieri ho comprato un paio di sandali molto belli a un prezzo irrisorio. Appunto, irrisorio: dove li avranno fatti? Chi li avrà cuciti, un ragazzino di otto anni? Vabbè, ora che faccio, li compro o non li compro, siamo in piena apertura dei mercati o no? E allora via, amen, anch'io in coda alla cassa. Salvo poi dover risolvere il problema dei tacchi clik-clak. I tacchi di plastica sono insopportabili (per il ticchettio) e infidi (per le scivolate). Ecco, bisogna aggiungerci il costo per il gommino silenzioso, quanto costerà? L'ultima volta che li ho fatti fare mi hanno chiesto cinque euro. Ma ahimè, quel calzolaio da Premio Geppetto è andato in pensione il mese scorso. Tenterò con quello del centro commerciale. Sbircio le tariffe: 10 euro, il doppio, ma per forza: fra tasse, costi fissi, materiale e tempo... è il suo prezzo. A questo punto sarebbe stato meglio puntare direttamente su un sandalo artigianale, costa un botto ma forse il tacco lo risparmiavo.
Suono il campanello e dal retrobottega si affaccia un giovanotto:
«Solo entro domani, perché poi chiudo!», mi anticipa.
«Chiude anche lei?» Lo guardo: dall'aspetto direi che non arriva ai trent'anni, mica andrà in pensione?
«No, no» mi rassicura, «Vado all'estero. Ho trovato di meglio».
Ecco. Di meglio. Cosa vorrà dire, mi chiedo, sarà un laureato in chimica che si stava adattando a un lavoro manuale o sarà un artigiano stufo di ingrassare i papaveri dello Stato? Nel secondo caso ha tutta la mia comprensione. Nel primo caso torno a pensare al mancato riconoscimento delle qualifiche manuali. Ne ho già parlato, ma secondo me certe categorie andrebbero gratificate con manifestazioni di riconoscenza tangibile: spazzini, colf, badanti, lavandaie, camerieri, braccianti avventizi e tutte quelle categorie snobbate. Dove sarebbe la bellezza della civiltà senza di loro? (Mi metto in mezzo, perché tre di queste professioni le ho esercitate per un bel po' di anni e a giudicare da come vanno le cose penso che tra non molto farò ritorno alla base).
Ma forse la conformazione delle aspirazioni non è neppure il prodotto di una società capitalista, piuttosto è un virus diffuso attraverso il mantra della comunicazione mass-mediale dalla società dei consumi, un cane che si mangia la coda, rimuovere ogni ostacolo per accedere istantaneamente alla gratificazione, un'aspettativa rispetto alla quale ogni deviazione provoca frustrazione. Tutto per tutti, e subito. 


Fatto sta che, appena lasciati in ostaggio i sandali, vengo fermata al parcheggio da un bel giovane dai tratti africani che vende libri, e insiste perché ne compri uno. Per convincermi mi confida di essere neo-laureato in medicina e di sentirsi fortemente imbarazzato a vendere libri per strada, anzi usa queste parole "Mi vergogno".
Io che sono una divoratrice di libri e ne acquisto sempre più di quanti riesca a leggerne, declino gentilmente l'offerta.
Il mondo ti spezza il cuore in ogni modo, questo è sicuro. Ma ci rimango male, vergognarsi di vendere libri mi sembra quasi una blasfemia. La gratificazione immediata è la pericolosa unità di misura di un'umanità sempre più tendenzialmente globale nei fenomeni e sempre meno disposta ad accettare la fatica, la gavetta, il compromesso.
Forse quel futuro medico ha solo sbagliato facoltà. O forse la conoscenza, alla fine, non sempre libera gli uomini.

venerdì 18 aprile 2014

TOLLERANZA: VIRTU' O DEBOLEZZA?
























 

Una mia parente si giustificava del fatto di non riuscire a sopportare alcune caratteristiche di chi le vive accanto:
 
«Non ho pazienza!» esclamava, e con questa affermazione intendeva rendere noto che non avrebbe fatto nulla per migliorare le cose, perché lei "era fatta così".
Nello stesso tempo convertiva questa sua debolezza in virtù, come a voler dire "sono gli altri che mi esasperano, sono loro che devono cambiare".

Un'altra ancora, lasciava che il vivace figlioletto scorrazzasse tra gli ombrelloni provocando tempeste di sabbia, perché tanto - mi spiegava tranquilla - glielo diranno gli altri se disturba oppure no.
Oggi l'indulgenza altrui viene data per scontata.
Per assurdo, chi si dota di pazienza viene considerato un passivo, incapace di reagire, quando invece la tolleranza richiede una forza straordinaria che pochi riescono ad esercitare.
È anche una questione di tempi: pensare un momento in più permette di considerare molte variabili prima di formulare un giudizio (che è comunque sempre relativo).
Il margine tolleranza-polemica poi si fa ancora più stretto, infatti la polemica non scatta "perché" accade una cosa, ma "come" quella cosa viene percepita.

«L'autobus è di nuovo in ritardo!»
«Il cameriere non arriva ancora!»
«Perché non aprono un'altra cassa? Non vedono la fila che c'è qui?»


Lamentele ragionevoli e forse anche giustificate. Ma prima di protestare, perché non cercare informazioni? Magari il Bus è bloccato a causa di un incidente o una deviazione. Forse al ristorante due collaboratori sono a casa con l'influenza. Al supermercato sono sotto organico e i cassieri rimasti si arrangiano come possono.

Per opportunismo le persone adottano un comportamento tolemaico.
Non riescono proprio a immaginare le situazioni da un diverso punto di vista, credono che tutto si muova intorno a loro, o diversamente, che una specie di congrega agisca con l'intento di recargli danno. In genere sono le stesse persone pronte a giustificarsi quando il sevizio mal gestito è invece il loro. 
A questo proposito ho letto da qualche parte una frase che ridimensiona tutto, fa riflettere e la trovo giusta per l'occasione:
"Se pensi che gli altri siano tutti stupidi, forse li stai misurando con il tuo metro".

venerdì 4 aprile 2014

LE SCARPE DA FUGA



























Parto per 3 giorni.
Dove sono le scarpe da fuga?

Solo una balenga come me può anticipare mentalmente tutte le emergenze e infatti - per questo - i familiari amano schernirmi senza pudore.
Fatto sta che i compagni di viaggio vengono prima o poi adoremus come a Betlemme:
«Hai per caso un cachet? ...cerottino? ...elastico? ...filo?»

Equipaggiamento indispensabile valido per ogni tratta:
Sketchbook
Micro-set emergenze
Scarpe da fuga

Non potrei mai partire con un tacco 10, ma neanche con un tacco 6. Metti il caso di uno sfollamento di emergenza, un incendio, uno tsunami. Non che mi importi un fico secco della morte violenta (già preventivata ovviamente da statistica), ma pensa il fastidio di trovarsi in mezzo alla fiumana e ti si sfila una decolletée! Non puoi abbassarti a cercarla, ti perdi tutto lo spettacolo e magari è proprio lo scoop-reportage che aspettavi da una vita.
Alcuni potrebbero avere la tentazione di definirmi un uccellaccio, ma non comprendono la tranquillità di aver preventivato (quasi) tutto. Insomma: quello che potrebbe arrivare di inaspettato a questo punto fa parte dell'entropia naturale delle cose, quindi è un avvenimento eccezionale che merita di essere vissuto pienamente, tanto ho la coscienza a posto.
Infatti di solito parto con un micro-trolley per la sopravvivenza che pesa soli quattro chili e mi godo veramente tutto il viaggio; in fondo, l'unica cosa veramente indispensabile è una penna e uno spazzolino da denti.

Qualche foto del mio weekend in Sicilia ♥ nel link qui sotto: http://statecomodi-viaggi.blogspot.it/2014_03_30_archive.html

giovedì 27 marzo 2014

CHI HA PAURA DEL COMUNISMO?



























Posso rassicurare tutti.
I comunisti non hanno mai mangiato i bambini. Né i loro né quelli degli altri. (Veramente non mi hanno mai neppure assaggiato, ho ancora tutte le cose al loro posto, non mi manca nulla).

In un covo di comunisti ci sono nata, per questo non li temo: una certa dose di autolesionismo incorporato li rende innocui.  

Associo la falce e martello alla faccia di mio padre, una faccia dai lineamenti perfetti posata come una ciliegina sul fisico da attore, prestante, slanciato e con il portamento di un Kennedy. 

Eppure era comunista. 

Da quegli occhi acquamarina traspariva voglia di conoscere, di onestà, giustizia e moralità, ma anche l'entusiasmo dei bambini. Era intelligente, coraggioso, caparbio, abilissimo in ogni campo, sia nel lavoro che nello sport. Non avrebbe recato danno volontariamente a nessuno, salvo a se stesso, e così è stato.
Nella sua vita da operaio-sindacalista-artigiano-piccolo imprenditore una personalità fondata nell'assoluta rettitudine morale lo ha condotto verso un integralismo ideologico che faceva a pugni con la società reale. Negoziare significa massimizzare il proprio beneficio per raggiungere un accordo. Lui sapeva che ce l'avrebbe fatta in ogni caso. Ma tutti gli altri? Gli ultimi?
Con questo conflitto frustrante si è auto-eliminato dal mondo, portandosi via tutti i suoi talenti.

Meritocrazia e/o Competizione?
Sorrido amorevolmente quando qualcuna delle mie amiche con visione tendenzialmente "di destra" cambia espressione al solo nominare la parola comunismo. La loro percezione vigilante è stata indotta fin da piccine, e le comprendo.
Così come faccio fatica a cambiare il concetto meritocratico nella testa di alcune amiche della sinistra radicale. Queste ultime leggono nella parola meritocrazia una radice del termine "competitività" e ci aggiungono "concorrenza sleale". Sono convinte che applicare la meritocrazia porterebbe danno alle categorie deboli, perché i più dotati e talentuosi si troverebbero, secondo loro, sempre in pole position. Non è così.

Confondono il "merito" con il "riconoscimento sociale" delle categorie deboli, nel quale io credo fermamente. Qui non c'entra la gerarchia del "più sveglio", anzi. É vero, ci sono dirigenti truffaldini, commercianti ladri e medici incapaci. Ma anche bidelli lavativi, operatori furbi, insegnanti assenteisti, panettieri disonesti e ognuno di questi crea un danno alla società intera, anche se con un Q.I. alto.
La meritocrazia invece significa competenza e responsabilità nel fare le cose, a qualsiasi categoria siano riferite, ed è il contrario di "nepotismo", "clientelismo", "casta", "elite" le quali vivono proprio su questa assenza.
Una società basata sulla meritocrazia non sceglierebbe un politico affidandosi solo al carisma, alle strategie competitive, alla furbizia e all'arroganza, ma su progetti dinamici e sulla competenza.

Mio padre comunista mi ha insegnato a spostare il focus e vedere oltre la facciata degli individui. Forse è riuscito a trasmettermi quello che non è stato in grado di compiere per sé. La volontà di tenere insieme le qualità di chi si incontra nella vita, e la parte migliore di ogni ideologia. Di questo veramente lo ringrazio.

mercoledì 26 marzo 2014

LA SCELTA DEL BENE (O DEL MALE)


























Mi sento vicina a quel tipo di religiosità cosmica di tipo spinoziano, se così si può definire il panteismo, ma Papa Francesco mi piace comunque molto. Uno puro e semplice come non se ne vedevano da tempo. 

"Convertitevi o per voi sarà l'inferno" è stata la sua espressione diretta agli uomini della mafia. Un anatema esplicito e chiaro, per un uomo di chiesa. Ma per un uomo della malavita?

Perché un uomo abbraccia il male?
Per paura o per bramosia di potere, ma in entrambi i casi l'inferno cattolico non è contemplato.
Per chi soggiace alla paura il vero inferno è mettersi contro un "padrino", per chi ha sete di potere l'inferno è un'arma che si può scatenare a piacimento per ottenere ciò che si vuole.
Toccheranno le corde dell'anima le parole del pontefice?
Non lo so, le parole di Papa Francesco sono piene di speranza, com'è giusto che sia, ma si fondano su un linguaggio incomprensibile ai violenti. Forse tali animi percepiscono solo la forza dell'azione, quell'intensa manifestazione che li incanala nelle loro recrudescenze, alle quali solo una azione omeopatica contrapposta (simile/sofferenza) potrebbe agire da folgorazione sulla via di Damasco.

Per i cattolici solo un messaggero dell'onnipotente potrebbe tanto.
Ma anche per gli agnostici la forza del pensiero non si discosta molto dal concetto di grandezza, considerando l'universo e la vita come scambio e rivelazione di fenomeni.

Chissà, forse inconsapevolmente, parliamo tutti lo stesso linguaggio.
Perciò buona fortuna, caro Francesco, se la tua parola potrà diventare esperanto di comprensione sarà una fortuna per tutti.

mercoledì 19 marzo 2014

L'AMICA SINCERA


























Esiste al mondo l'amicizia sincera?
 

Pensateci donne.
Vi è mai capitato di incontrare qualcuno che scambia la malizia per sincerità?
Basta guardarsi attorno.

«Sai che non ti direi mai una bugia, sono sempre sincera con te: ho appena visto tuo marito a braccetto con una bella bionda.» 


Oppure: «Ti vedo sciupata oggi: stai male?»

È questa la sincerità? Per me è solo cinismo.
 

Potrei certo dire a un'amica: 
«Oh, guarda che hai messo il maglione al contrario!» perché so che sarebbe un tipo di sincerità "produttiva" infatti basta toglierlo, rivoltarlo e il problema si risolve.
Ma non le direi mai, neanche sotto tortura: 

«Hai un herpes sul labbro stamattina!», e nemmeno «Sei un po' ingrassata, o mi sbaglio?» perché sicuramente lei lo avrà notato prima di me e dicendolo non le risolverei un bel niente, oppure fino a quel momento non le interessava più di tanto e la farei solo intristire.

Ci sono piccole omissioni e delicatezze che rendono grandi le amicizie, sono proprio queste il mare immenso che le tiene separate dalle semplici conoscenze. ♥

martedì 18 marzo 2014

Bye Bye... FB!



























Zac: un taglio netto.

Sono entrata in Facebook cinque anni fa, a ripescare gli amici seminati per le strade del mondo: "Ciao come va? Cosa fai, dove sei finito/a?"
Era molto divertente, pensavo avrebbe accorciato lo spazio tra me e le persone che mi interessavano.
Il tempo di inserire due preferenze ed ecco la piovra con i suoi tentacoli: hai cliccato mi piace sulla foto al mare postata dalla zia Brambilla? 

Beccati una sfilza di soggiorni low-cost sulla Costa del Sol.
Perdi subito un po' di tempo a disabilitare tutti i cookie allegati.

Mano a mano che i contatti crescono, la Home si riempie
di scorie, un rumore di fondo, un brusio costante finto, inutile e vuoto che non smette mai. Sono qui, sono là, sto andando. 

Foto di cani e di gatti, di bagna cauda alle otto di mattina, micro-citazioni di Einstein (per carità nessun commento tecnico, facebook non è mica La corazzata Potëmkin!) catene di immagini pittoriche, impressionisti, dadaisti, clicca mi piace Pellizza da Volpedo! (Puntinismo? Boh, sarà scarlattina...)

Tonnellate di post insignificanti, sguaiate definizioni su tutto, decine, centinaia, migliaia di minuti presenti trasformati in un passato e futuro fatto di nulla. 

Perché mai questo dovrebbe sembrare così interessante?
Per cadere a mia volta nella tentazione di convincere, educare, spiegare? Per alcuni basta anche solo sbirciare i fatti degli altri.

Sembrava di perdere chissà che. 

Alla fine si è risolto tutto in un divorzio breve e senza traumi. L'autentico piacere di vedere un amico/a mantiene intatte le sue antiche strade, il resto è soltanto noia. Dov'è l'uscita?
Bye bye Facebook.

sabato 15 marzo 2014

SNOB!



























Non si direbbe che esco fuori da una famiglia di marxisti atipici, per certe cose sono bon tòn come una liceale borghese.
Dev'essere quell'ottavo di sangue blu che mi scorre dentro, anche se decaduto dal 1885.
Fatto sta che ho un trasporto inspiegabile per certe stranezze tipicamente noblesse d'épée, come il tè nero caldo e senza zucchero, le posaterie argento-alpacca, le biblioteche private (meglio se così immense da non poterci uscire), le maisons de campagne con cappella privata tipo quella del mio bisnonno defenestrato dalla famille, il fastidio per le voci squillanti e i rumori, la passione per le altezze più alte possibili (non soffro di vertigini), e per l'allure innato.
Quello stile personale che non c'entra nulla con l'eleganza, gli abiti firmati, i gioielli o la bellezza. Intendo quella caratteristica seduttiva che riesce a farti girare la testa per la strada, anche se la persona appena incrociata è anziana o demodè. L'allure ha molte declinazioni.

Trovo affascinanti:
♦ la polvere sui mobili e sulle scarpe
♦ libri, matite, penne e blocchi-appunti sparsi come se piovesse
♦ frutteti di mele selvatiche
 
vecchi maglioni molto amati, ristretti o coi buchi  
foglie secche a mucchi 
grandissimi disordinati bouquets multicolori  
una sola pietanza al giorno, piccola ma favolosa

Trovo deprimenti:
♣ l'umido in tutte le declinazioni (devo essere stata un gatto) 
♣ cantine, sottoscala e sale termiche
♣ il letto sfatto e ammassato (lo spiano come un tavolo da biliardo)
♣ i calzini coi buchi (li butto appena c'è un velo di trasparenza)
♣ i rammendi! (sono orribili, i buchi hanno più dignità, calzini esclusi)
♣ collezionare bomboniere
♣ il 3x2 e le dispense piene di tutto (#consumare meno#spendere meno#mangiare meno!)
♣ quelli che pagano dietologi e massaggi dimagranti (vale l'# sopra, meglio devolvere la cifra alla mensa della Caritas!)
♣ gli orari fissi per pranzo e cena
♣ le crostate di marmellata
♣ le impostazioni vocali parvenue (preferisco un sano e ruspante accento territoriale) 
♣ oltre 2 vasi di piante in casa
♣ la colf (se proprio è necessario, fissare almeno un giorno per pulire insieme e invitarla a cena ogni tanto).
 

Ho passato i primi dieci anni della mia vita indossando costosi abiti da boutique, eppure dormendo in una cameretta angusta e senza sbocchi diretti all'esterno, infatti la mia finestra dava su un laboratorio buio e polveroso, pieno di attrezzi da artigianato. Stranezze! Le torte di compleanno me le compravano in pasticceria, mia mamma non si è mai cimentata nell'impresa. Natale non si festeggiava proprio: c'era solo un piccolo abete pagano a celebrare la giornata della famiglia, mai visto un presepe. Il regalo arrivava per "Santa Lucia", preannunciato dalla comunicazione ufficiale che tanto Santa Lucia non esiste e chiusa lì la faccenda. Niente fiabe, please, siamo outsider. Nel '61 eravamo l'unica famiglia del rione ad avere telefono, tv, frigo, lavatrice, lavastoviglie, fisarmonica, chitarra, mandolino e mangiadischi (mangiavamo anche molte bistecche a pranzo e cena: i vegani non li avevano ancora disegnati), per casa nostra passavano indistintamente sindacalisti, professori, dirigenti scolastici, operai metalmeccanici e consiglieri comunali, (si accettavano anche preti, purché lasciassero fuori dalla porta ogni tentativo di conversione) per accalorate discussioni politico-culturali che si protraevano fino alle prime ore del mattino. Di questa vita a dir poco pittoresca (ma è solo una parte minima, ce ne sarebbe da dire!) mantengo un dualismo contrapposto. Per esempio una inspiegabile tendenza alla parsimonia, leggi tirchieria, riguardo le spese in genere. Caso singolo della famiglia, non so proprio da chi l'ho ereditata. Come una perfetta regina Elisabetta prendo poco e riciclo tutto, anche le cose smesse delle amiche (che amo particolarmente proprio perché appartenevano a loro), ma con stile. Ci vuole, è vero, un minimo talento cromatico per gli abbinamenti, ma anche quello è un dono di famiglia, per fortuna. 

L'uomo della mia vita dice che sono snob.
Sì, è vero.
Sono terribilmente, intensamente, orrendamente snob. E' innato. Mi piace. Mi fa stare bene.
Quindi, come disse quel gran pezzo di gnocco di Clark Gable a Scarlett O'Hara: Frankly, my dear, I don't give a damn.
Francamente, me ne infischio.

martedì 11 marzo 2014

TORNO SUBITO...



























SUCCEDE.
Un disguido tecnico, cambi due parametri e puf, sparisci.
Per un giorno "StateComodi" se l'è presa comoda e da Blog aperto al mondo è diventato burbero e chiuso a tutti. Qualche lettore affezionato, non trovandomi più da nessuna parte, ha pensato bene fossi caduta anch'io nel buco nero... «Evvai, ce ne siamo liberati finalmente!»
Falso allarme.
Grazie soprattutto a Mauro e Letizia, amici di questo sgangherato Blog, che mi hanno avvisato subito.

mercoledì 5 marzo 2014

LA GRANDE BELLEZZA



























Tempo fa ho preso a noleggio "La Grande Bellezza": avevo notato il trailer al cinema e deciso che avrebbe meritato la visione. Non soltanto per la probabile candidatura all'Oscar, ma soprattutto per quella provocatoria "armonia del contrasto" che avevo vagamente intuito. 

Una parte sostanziale dell'umano agire che mi è totalmente estranea è quella della trasgressione. Non l'andare oltre in sé (che sperimentato in vera libertà sarebbe esaltante), quanto la supposta "indipendenza morale" che una parte di umanità si convince a esercitare con soddisfazione. La piccola "furbata", ecco. Oppure l'eccesso. La violazione sottobanco. La perversione. La lussuria. La dissolutezza viziosa del potere.
Non considerando che tutto è meccanico, stabilito a priori da qualche forza primaria, ordinario, quindi non soddisfacente.  


La vera trasgressione è annusare l'esca e scansarla.
Farsi di canne e strafogarsi di alcol, sbattersi nelle orge, stordirsi di decibel o rimbambirsi di fondamentalismi - etici o religiosi che siano - equivale a incanalarsi nella strada edulcorata e già predisposta dal sistema di gratificazione cerebrale: quel meccanismo strategico di sopravvivenza fatto di spinte compulsive basilari. (Sa odore di fregatura grandissima). 

Il senso de "La Grande Bellezza", se si riesce a vedere, è questo. La consapevolezza del bluff che si cela nell'atto stesso dell'infrangere. Interpretazione che ho trovato magnifica, quasi nichilistica. Lo stacco abissale fra le dimensioni è vibrante.

Se invece l'unica cosa che salta agli occhi in tutte le riprese è la bagarre di colori e di suoni, allora non si è ancora entrati nella dimensione più corretta, la razionalità qui non aiuta, sarebbe come chiedere alla retina di percepire l'infrarosso, bisogna spostarsi su diverse lunghezze d'onda. 


Non sono molto sicura che l'attribuzione dell'Oscar sia frutto di analisi interpretative. Temo che gli americani abbiano individuato l'unico aspetto che riescono percepire dell'Italia: quello
stereotipato della genialità e dell'eccesso. Però è solo una sfaccettatura. 
Neanche in Italia, comunque, è stato apprezzato da tutti, anzi sono fioccate le critiche sui social network. Al di là che il regista non sia quel gran campione di simpatia, qualcuno ha definito il suo film un mattone e si è addormentato in poltrona.
Peccato.
La purezza sonora di Vladimir Martynov levita sulle magnifiche inquadrature, scorrendo
minimalista e cristallina, in soave opposizione alla nobile decadenza.  
Che dire? Viva l'Italia, l'unica nazione capace di criticare se stessa anche quando vince un Oscar. 

venerdì 28 febbraio 2014

LA CITTA'



























 La crisi trasforma la città.
Percorro via Roma: prima c'era Ugo Caòn (le scarpe), Canton Colori (belle arti), l'erboristeria della mia amica Daniela, Boranga con le luminose vetrine di begli abiti e l'arredo-casa più prezioso. 


Ora nel giro di cento metri c'è una banca (la BCC), una vetrina vuota, tre vetrine ricoperte di carta bianca, un'altra banca (Popolare di Vicenza) e un'altra banca ancora (Credem). 
Quale denaro gestiranno queste banche, ora che i negozi e le fabbriche chiudono come per contagio? Nel giro di tre anni lo spazio del commercio si è completamente svuotato.
Per di più, non so se è effetto della tristezza, l'illuminazione mi sembra fioca, camminarci fa paura. Sarà forse una scelta dell'amministrazione comunale a favore del taglio dei consumi, ma è veramente inquietante attraversare alle sei di pomeriggio questa strada un tempo luminosa. 

La metamorfosi è quasi completata, la farfalla di un tempo è regredita allo stato di crisalide, fragile, pallida e bruttina. 

lunedì 17 febbraio 2014

À rebours!



















Anni fa - parecchi anni fa - percorrendo quelle magnifiche foreste che si estendono tra la Bourgogne e il Centre per chilometri e chilometri, continuavo a stordire il mio compagno di viaggio ripetendogli come un disco rotto: "io qui ci sono già stata". 
E ancora prima, forse intorno all'età di otto/nove anni, aspettavo con ansia l'unico feuilleton/TV che riuscisse a distogliermi dalle mie pomeridiane faccende bambinesche: l'âge heureux. 
 
Cosa ci trovassi di magico in quell'ambiente d'oltralpe non lo sapevo proprio, dato che non c'ero ancora stata, il fatto è che sentivo qualcosa attirarmi proprio là. Poi, dopo aver visitato la Francia in lungo e in largo, e averla molto amata, ho casualmente scoperto che lo strano cognome del trisavolo materno era indiscutibilmente francese. Insomma, c'era una percentuale di sangue gallico nelle mie vene, ecco il motivo di tanto trasporto. 


 Pensavo fosse finita lì. 
Ma per quel meccanismo affascinante che va sotto il nome di serendipità, ho rivisto dopo molto tempo una anziana zia, del ramo paterno questa volta, una di quelle rare persone quasi centenarie che, per benedizione divina o genetica, riescono a ricordare tutto con lucidità infallibile. È quasi impossibile, per qualsiasi individuo, ascoltare reportages di vita vissuta risalenti a centocinquanta anni prima, eppure a volte accade ed è magnifico. Sembra di viaggiare nel tempo, improvvisamente siamo anche noi presenti lì, negli stessi posti, nel 1860 e ci rendiamo conto di cosa si intende quando si parla di quarta dimensione. 

 Ci sono rivelazioni che prendono da sole la strada che devono  e anche in questa ascendenza paterna compare una trisavola dal cognome francofono, e una ristretta comunità di consanguinei che vive tra le amene colline del Prosecco italiano.
Ricerca veloce:... c'est tout! Ce nom de famille est certainement français! Ecco che la percentuale di sangue gallico sale
tout court a 1/8! Quindi l'aspetto psicoaffettivo che mi faceva comprendere il francese scritto, pur senza conoscerne una parola, è forse svelato?

 Poi ci stupiamo delle nostre "paure ancestrali" e dei blocchi irrisolti che a volte ci impediscono di fare alcune cose, o magari ci permettono di farne altre che credevamo impossibili...
Quante altre vite ci portiamo addosso inconsciamente! Non è forse magnifico? E c'è ancora gente che teme di morire, con l'idea che finisca tutto lì... 


 À rebours, à rebours! 

Altri miei post precedenti sul tema: 

AH, I MORTI NON RESTANO MAI MORTI.
LE QUATORZE JUILLET, FÊTE NATIONALE!